L’isola della memoria – Dido Michielsen
In questo angolo di mondo, forse su questa stessa isola, scorrazzavano i miei discendenti, ignari di avere nelle vene il mio sangue. Sangue misto. Non potevo morire così, come se niente fosse, senza farmi conoscere da loro, senza offrire loro l’opportunità di seguire a ritroso il sentiero che portava a me e alla mia famiglia.
L’altra Storia
L’isola della memoria è il primo romanzo di Dido Michielsen, una scrittrice nata in Olanda, ma di origini indonesiane. Ed è proprio in Indonesia, più precisamente nell’isola di Giava, che la Michielsen sceglie di ambientare il suo romanzo: ispirandosi alla storia della sua trisavola, l’autrice ci racconta la condizione di molte donne indigene durante il periodo del colonialismo olandese di fine Ottocento nel sud est asiatico.
Cosa sia stato ed è tuttora il colonialismo bene o male si sa. Anche senza averne avuta esperienza diretta, film, libri e reportage hanno in qualche modo portato a noi le gesta (spesso tutt’altro che eroiche) dei colonizzatori europei che, a partire dalla scoperta delle Americhe, hanno scorrazzato il pianeta, violando e conquistando territori. Ma probabilmente non tutti conoscono nel dettaglio ciò che queste “conquiste” hanno significato per le popolazioni che in quei territori abitavano ben prima che gli europei decidessero di farli propri.
Lo scopo principale de L’Isola della memoria è proprio questo: presentarci la Storia dalla prospettiva dei vinti… anzi, delle vinte. Sì, perché protagoniste assolute di quest’opera sono le donne, in particolare le donne che divennero le compagne dei colonizzatori olandesi, le cosiddette nyai… ma prima di parlarvi di loro, voglio presentarvi per bene la trama.
La protagonista, Piranti, è una giovanissima ragazza che si affaccia alla vita non senza problemi. Figlia unica e senza un padre, i primi anni della sua adolescenza trascorrono all’interno del kraton di Yogyakarta, la città-palazzo fortificata.
Qui, Piranti conduce insieme a sua madre una vita tutto sommato dignitosa, e tuttavia, crescendo, capisce ben presto che deve andarsene: se rimanesse, l’attenderebbe un matrimonio combinato. Così, a soli sedici anni, abbandona il kraton per andare a vivere con un ufficiale olandese, sperando in questo modo di lasciarsi alle spalle le soffocanti tradizioni giavanesi. Ciò che Piranti ignora è che in realtà è appena passata dalla padella alla brace…
Troppo esotico
Da un punto di vista culturale il romanzo è davvero interessante, giacché ci introduce, come accennato poco fa, alla figura delle nyai, ovvero di queste donne indonesiane che furono usate (è proprio il caso di dirlo) come concubine dai loro colonizzatori, i quali, da un momento all’altro, potevano abbandonarle, sole, disonorate, e con dei bambini di cui prendersi cura.
Ma, al di là del suo valore divulgativo, la storia a ben vedere convince poco, a cominciare dallo stile che, anziché coinvolgerci, crea una barriera linguistica fra noi e i personaggi della storia. Infatti, l’autrice si esprime intercalando troppo spesso le frasi con termini in lingua giavanese, il cui significato viene chiarito solo alla fine del romanzo, in un glossario che consta di ben dieci pagine. I rimandi al glossario sono così tanti che costituiscono continue interruzioni forzate nella lettura, tanto da inficiarne la scorrevolezza. Date un’occhiata:
[…] la fine di un digiuno, una nascita, un decesso, una circoncisione, ogni occasione era buona per un selamatan in grande stile. Per esempio, festeggiavamo il tingkeban quando una gestante raggiungeva il settimo mese, il puput puser quando cadeva il cordone ombelicale di un neonato, e il turun tanah quando il bambino muoveva i primi passi.
[…] mi spiegò che avrei dovuto cambiare kebaya almeno due o tre volte al giorno, e che non dovevo mai avere neppure una macchiolina addosso. I kain e i sarong (dieci in tutto) venivano da Banyumas, dove si seguivano i gusti delle signore indo-europeaan, e non l’adat.
«Non saprei, nyai», rispose la babu, ma dal tono si capiva che non intendeva muovere un solo dito per cercare di rabbonire la dukun. Poi, quasi per darmi conforto, aggiunse: «Secondo me, il tuan partirà prima che il guna guna sortisca il suo effetto».
Lo ammetto, ad un certo punto ho abbandonato l’idea di conoscere il significato di ogni singolo termine giavanese e sono andata avanti così, accontentandomi di intuirne il senso basandomi sul contesto.
Sicuramente l’intenzione dell’autrice era di dare una parvenza di realismo, ma alla fine i vari termini giavanesi non hanno aiutato a rendere più concreta l’ambientazione, hanno rappresentato solo un elemento di disturbo che impedisce a chi legge di farsi coinvolgere totalmente dal racconto. Non dico che l’autrice avrebbe dovuto astenersi dall’inserirli, ma di certo sarebbe stato meglio se ce ne fossero stati di meno e se il loro significato fosse stato deducibile dal resto della frase. Pensate a come fa, ad esempio, Valeria Tron ne L’equilibrio delle lucciole. In questo romanzo, ambientato nel Piemonte occidentale, i dialoghi fra i protagonisti alternano frasi in italiano a frasi interamente in patois, un dialetto valdostano con elementi francoprovenzali usato dalle popolazioni rurali montanare.
E tuttavia in questo caso la lettura risulta scorrevole, perché le frasi in dialetto sono prontamente tradotte dalla voce narrante, che così ci risparmia la fatica di interrompere la lettura per consultare il glossario:
Si avvicina alla stufa dove ribolle la minestra. “N’ai faito d’avans”. L’ha fatta abbondante, dice, come se parlasse più a sé stessa che a me.
Mi osserva mentre sulle ginocchia dispongo le gallette di lana e le metto in ordine numerico. “Ergrèttou de pa te ague moutrà” dice timidamente. Ha ragione, tante nonne e nessuna che sia riuscita a obbligarmi ai ferri.
Notate la differenza? Il dialogo scorre fluido, e si rimane immersi nella storia senza distrazioni forzate. Tutto è un continuum, un divenir spontaneo della narrazione che alterna con grazia e abilità entrambe le lingue con continuità.
Crepe irreparabili e dove non trovarle
Oltre allo stile, anche la trama ha numerosi difetti, in particolare è piena di episodi che non hanno alcun seguito e che risultano slegati dal resto dell’intreccio.
Ad esempio, quando la protagonista racconta della sua infanzia, ci parla di una scimmietta che aveva ricevuto in regalo da suo zio e che le viene rubata dalla cugina Karsinah. Si tratta di un episodio su cui la voce narrante si dilunga molto, e che però non ha particolari conseguenze sullo sviluppo della trama (per dire, dopo il furto subito Piranti presenzierà comunque al matrimonio di sua cugina, e non le dirà di no quando questa le chiederà di esibirsi in una danza dopo la cerimonia) e neppure sullo sviluppo caratteriale della protagonista. Insomma, è un episodio posto fra due parentesi, alieno al racconto.
Un altro esempio: a un certo punto, Piranti decide di sottrarre a sua madre un anello prezioso per pavoneggiarsi di fronte a Karsinah (sì, di nuovo lei). Come era prevedibile lo perde, le vengono i sensi di colpa, e poi… e poi niente, basta così, dell’anello non se ne parlerà più. Piranti sostiene che l’episodio ha aperto “una crepa irreparabile” fra lei e sua madre…
Oltretutto, l’episodio aveva aperto una crepa irreparabile tra me e mia madre, perché non riuscivo più a reggere a lungo la sua compagnia senza sentirmi a disagio.
Ma la verità è che gli effetti di questa crepa non si notano affatto, e infatti, già nel paragrafo successivo, leggiamo che le due trascorrono molto tempo insieme, come se nulla fosse accaduto:
Io, invece, una volta compiuti i quattordici anni, uscivo dal cancello posteriore quasi ogni giorno, per aiutare mia madre a portare la spesa dal pasar a casa, o per farle compagnia quando visitava una tintoria batik.
Perciò in definitiva anche l’episodio dell’anello è un episodio che non ha alcuna influenza sull’intreccio.
Ancora un altro esempio (giuro che è l’ultimo che cito, ma ahimè non è l’ultimo presente nel libro). Sempre nella parte in cui narra della propria infanzia nel kraton, Piranti ci racconta di una gita al Taman Sari, “il fresco giardino dei piaceri della famiglia del sultano”, in compagnia di tutte le mogli e concubine del Principe. Prima di partire per la gita, la protagonista riceve da sua madre una raccomandazione quasi sibillina, che la lascia perplessa:
«Ma sì, vai pure», rispose lei, con l’accenno di un sorriso. «Però tieni ben aperte le orecchie, e anche gli occhi, e non perdere mai il conto di quante siete.»
Non capii a cosa alludesse.
Dimentica delle raccomandazioni di sua madre, Piranti si gode la gita e rimane affascinata da una bellissima ragazza del gruppo, per poi rendersi conto, a gita terminata, che la ragazza è sparita:
In tutto quello scompiglio, persi di vista la giovane donna che avevo tanto ammirato al nostro arrivo, e non riuscii neppure a contare quante eravamo. So solo che, un paio d’ore dopo, quando le carrozze ci riportarono al padiglione delle donne, la ragazza non si vedeva da nessuna parte.
Finisce così l’episodio della gita e della bella ragazza. Che cosa sia successo a quest’ultima e perché sia sparita non ci è dato sapere. Vien da domandarsi che cosa avesse in mente l’autrice quando ha inserito questo episodio nella trama. Che cosa voleva comunicare? Che al Taman Sari c’è un maniaco sessuale che rapisce fanciulle? Che è lo stesso sultano a rapirle? O che magari è una delle mogli del sultano a far fuori le belle ragazze, per evitare che il coniuge posi gli occhi su di loro? O forse che c’è un fantasma che si aggira per il giardino? Ma in fondo la domanda più importante è un’altra: che ruolo ha questo episodio nella trama? Piranti non appare particolarmente turbata dalla scomparsa della ragazza, e infatti di lei non si parlerà più nell’opera. Anzi, già nelle righe immediatamente successive la voce narrante cambia argomento con disinvoltura:
[…] la ragazza non si vedeva da nessuna parte.
Prima di uscire per sempre dalla mia vita, Karsinah aveva un’ultima sorpresa per me, e anche stavolta la messaggera che me ne portò notizia fu Jatmi [sorella di Karsinah].
SPonijobob
Gli episodi sconclusionati non sono però l’unico problema della trama, che in diversi punti appare indecifrabile. Il motivo è che non è chiaro che tipo di personaggio sia Piranti, quali siano i suoi desideri e dunque che cosa consideri come ostacoli alla propria felicità. Per esempio, non capiamo fino in fondo perché non voglia sposarsi con l’uomo scelto da sua madre, il Reggente dei Possedimenti Esterni, che non ha mai incontrato.
All’inizio sembra che Piranti non voglia sposarsi con un uomo più grande di lei, che neppure conosce, perché, giustamente, vuole sposarsi con qualcuno che le piaccia. Per la precisione, vuole sposare il giovane Ponijo, un membro della cerchia reale:
Pensai a Ponijo e mi venne voglia di mettermi a urlare. Io volevo lui, non un wedana o un bupati di mezz’età, o un vecchio dei Possedimenti Esterni col gusto delle ragazzine come me.
E questo è assolutamente ragionevole, fin qui tutto fila liscio. Ma poi succede qualcosa di imprevisto: Ponjio si dimostra un ragazzo poco serio, e Piranti ne rimane delusa.
Dopo questa esperienza, Piranti è ancora convinta di non voler sposare il reggente, ma questa volta tira fuori una motivazione diversa, che non ha più a che vedere con il vero amore e altre romanticherie del genere: lei adesso vuole essere libera come le donne che vivono al fianco degli occidentali, libera dalla “rete dei doveri e delle tradizioni”…
Forse, dopo tutte le belle storielle che avevo raccontato a Karsinah e Jatmi, mi ero convinta anch’io che la vita fuori dalle mura del kraton potesse offrirmi l’agognata libertà. Forse il mio sguardo si era soffermato troppo a lungo sulle signore che, invece di sgobbare e inginocchiarsi dinanzi al loro padrone, passano le loro giornate in veranda a sorseggiare tè, tutte giulive. Se potevano loro, perché io no?
Con la coda dell’occhio vidi Jatmi commuoversi di fronte alla scena. Sognava di compiere questo rito anche lei, un giorno. Ma il mio cuore sanguinava per sua sorella che, dopo questa lavanda dei piedi, si rialzava a fatica, intrappolata nella rete dei doveri e delle tradizioni.
Tuttavia questa nuova motivazione entra in contraddizione con la prima. Quando voleva sposare Ponijo, Piranti non sembrava spaventata dalla “rete dei doveri e delle tradizioni”, perché adesso di punto in bianco i matrimoni e le regole giavanesi sono diventati per lei un problema?
E ancor più contraddittorio è ciò che fa Piranti poco dopo. Innamorata improvvisamente della libertà, diventa la compagna di un occidentale che però, sentite sentite… non le piace. Gey, l’olandese, infatti non l’attrae fisicamente. Ad esempio di lui dice che ha dei brutti capelli…
Trovavo brutti quei suoi capelli del colore della paglia […].
E dice anche che ai suoi occhi Gey sembra una scimmia:
All’inizio ero inibita, passiva. E sconvolta. Quell’uomo era villoso come una scimmia: braccia, gambe e petto erano coperti di una morbida peluria.
Ma come? Prima Piranti non voleva sposare il Reggente perché era vecchio e dunque non attraente, e adesso le sta bene essere la compagna di un uomo che fisicamente la disgusta? Certo, può darsi che Piranti voglia così tanto la libertà da accettare perfino di stare con Gey. Ma anche vedendola in questo modo, c’è comunque qualcosa che non torna. Infatti, se per la protagonista la libertà fosse davvero la cosa più importante, allora non dovrebbe accettare di buon grado tutte le imposizioni di Gey. E invece accettare le imposizioni è proprio ciò che fa Piranti.
Per esempio, accetta che Gey le cambi il nome in “Isah”, e ciò nonostante abbia vissuto “come un decesso” il momento in cui Karsinah, dopo il matrimonio, le comunica il suo nuovo nome da donna sposata:
[…] con un filo di voce, mormorai: «Karsinah…»
Ma lei, con mia sorpresa, disse: «No, Piranti, non mi chiamo più così. Adesso sono Siti Darwati Kuncaraningrat».
[…] Mi affrettai a chinare di nuovo la testa, sperando che questo cambio di nome le portasse un po’ di pace interiore e – chissà? – magari la mettesse al riparo dall’infelicità. Ma io lo vissi come un decesso, e mi sentii come se stessi rendendo omaggio alla defunta dinanzi a una sua parente.
Qualcosa dentro di me protestò: Ma cosa fa? Mi toglie il nome e me ne da un altro? Dico, mi ha presa per una strada? Però poi pensai che era la stessa tradizione giavanese a contemplare l’idea che a ogni nuova fase della vita si accompagnasse un cambio di nome. Dunque forse il fatto che in quel momento fosse proprio lui ad assegnarmi un’altra identità era un buon segno.
Chiaro? Piranti accetta di cambiare il proprio nome con uno imposto da Gey perché “la stessa tradizione giavanese” lo prevede… ma che diamine! Piranti non aveva deciso di diventare la compagna di Gey proprio per fuggire alla “rete dei doveri e delle tradizioni”? Perché adesso improvvisamente le aggrada l’idea di rinunciare alla propria autodeterminazione per sottostare a una vecchia tradizione? A questo punto, per stare con un bruttone che le dà ordini, non era meglio sposarsi con il Reggente dei Possedimenti Esterni? Bah.
Non è un capolavoro, ma almeno è un lavoro
Per via di tutte queste continue incoerenze che caratterizzano il suo comportamento e il suo pensiero, Piranti è un personaggio che non riusciamo a inquadrare e a capire, e con cui, di conseguenza, non riusciamo a entrare in empatia. E questo è un bel guaio, perché se non riusciamo a instaurare un legame empatico con la protagonista allora non riusciremo nemmeno a farci coinvolgere dalle sue vicende, e le pagine del libro scorreranno senza lasciare in noi la traccia di un’emozione.
Tuttavia non mi sento di bocciare completamente questo romanzo. È vero, è ben lontano dall’essere un capolavoro, tuttavia non è nemmeno paragonabile ai romanzi fuffa che stanno infestando il mondo dell’editoria, che ci vengono presentati come eclatanti e che poi si rivelano un niente con la copertina intorno. Almeno, L’isola della memoria qualcosa da offrire al lettore ce l’ha. Spesso lo offre in maniera un po’ goffa, questo è sicuro, ma credo che a volte valga la pena premiare la buona volontà, non siete d’accordo? Se sì, allora vi auguro una buona lettura!