La dittatura del denaro – Vittorino Andreoli
A te che ci sei riuscito, spetta allora la gioia di aiutare i tanti, che sono uomini come te, ma non hanno denaro.
Il ponte mi va stretto
Accidenti, lettori, ora è tornato il freddo artico… a fine aprile… però dobbiamo ammettere che l’estate ci ha già strizzato l’occhio: qualche giorno di anticiclone e il sudore sulla pelle ha gridato a gran voce che luglio è a portata di mano. Non amo particolarmente l’estate, sarò sincera, preferisco di gran lunga le mezze stagioni. Mezze stagioni che, per mia sfortuna, ovviamente essendo io una sfigata micidiale, pare non esistano più. Oh, be’, qualcuno non se ne duole per nulla, e anzi l’incipiente estate è il momento più atteso. Ma sì, avete capito, sto parlando di lui, del senatore M. S., il mammifero (eh, be’… quello è) in giacca e cravatta la cui stagione degli amori coincide con la stagione… ehm… calda. Sapete tutto, ormai, gli anni scorsi avete visto i documentari sui canali Rai o su SkyTg24: nel mezzo della vampa d’agosto, M. S., da buon maschio alfa del Partito del Nord, si circonda dei maschi gregari… sì, insomma, dei suoi amici calabresi e pugliesi, quelli delle circoscrizioni in cui è stato eletto… e mette in mostra il possente fisico curvilineo, improvvisando alla consolle un irresistibile canto d’accoppiamento. Oh, non so poi come gli vanno le cose, ma di sicuro non passa inosservato al villaggio.
Però, però, però. Quest’anno si ripete il problema. M. S., ricorderete, ha di recente cambiato lavoro: e sembra una cazzata, ma in effetti c’è una grossa differenza tra fare il ministro dell’interno e fare il ministro delle infrastrutture. Qui non si tratta più di starsene lì e lasciare entrare i clandestini, qui si deve fare qualcosa di tangibile, altrimenti le vacanze ciao, non te le sei meritate, no, no. Qualcosa di tangibile… uhm… un tombino che sprofonda nell’asfalto? Ah, ce ne sono già un sacco. Cabine autovelox non omologate che si disattivano quando passa la vettura del terronazzo di quartiere? Nah, anche di quelle sono piene le città. Magari… magari… ehi… e un ponte? Giusto, certo, il ponte sullo Stretto di Messina! Oh-oh con quello sì, vacanze assicurate per il resto della vita. Vero, è un vecchio progetto, ma stavolta è sicuro, si fa, cascasse il mondo. Venisse un terremoto, si farà. Venisse una guerra, si farà. Venisse… oh-oh, un momento… sento qualcosa… un… parole deprimenti?! Ma… ma…
Sarà la mafia a decidere e a gestire l’impresa che eventualmente lo costruirà. Se l’opera, come abbiamo detto, è facilmente attuabile, avrà sicuramente costi di grande entità, tutti a carico dello Stato, anche se la gestione operativa della spesa spetterà alle due regioni che ne sono interessate, da un lato e dall’altro del ponte: la Sicilia e la Calabria. Due regioni con governi distinti e con «famiglie» di nomi diversi.
[…]
Un noto psichiatra di Messina mi disse che, se si fosse giunti alla decisione di costruire il ponte e se fossero partiti i lavori, si sarebbero aperti i cantieri per non chiuderli più. A suo avviso, la mafia vuole che si faccia il ponte, nel senso che lo Stato disponga continuamente i fondi per porre una continuità tra Sicilia e Italia continentale, ma senza che abbiano mai una fine.
Ah, guardate, io mi dissocio, per carità. Però mi tocca notare che a far caciara non è un barbone qualunque, è un tizio acculturato, uno che conta, uno che di tanto in tanto va in televisione. E non sui canali regionali, bensì sulla Rai, sull’emittente della CEI (no, non è sempre la Rai, intendevo TV2000). Non vorrei dire, però… non è che niente niente salta la stagione degli amori, quest’anno?
Va bene, lettori, dopo questa creativa introduzione che mi renderà uno dei principali datori di lavoro/benefattori in Italia (perché credo che querelare per diffamazione e oltraggio sia tipo la terza fonte di reddito nel nostro Paese, o qualcosa del genere), mi sa che è il caso di fare un po’ la seria, almeno quel tanto che basta per darvi le coordinate e farvi capire di cosa diavolo sto parlando. Ebbene, il tizio acculturato, e disincantato, altri non è che il nostro amato Vittorino Andreoli: esatto, lui. È tornato in libreria. Con un nuovo saggio, stavolta dedicato all’economia. Già, nonostante in Homo stupidus stupidus avesse ammesso candidamente di non essere esperto dell’argomento… ha deciso comunque di mettere nero su bianco le sue idee. C’è subito da storcere il naso, dite? No, non sono d’accordo. È chiaro che bisogna tenere ben presente che si ha a che fare con un testo che parte svantaggiato, rispetto a uno scritto da un premio Nobel per l’economia, ma… non ho mai creduto che ci debbano essere censure fondate sulla “non ottimale” preparazione degli autori. Perché imbavagliare o squalificare a priori? Si tratta di un libro diretto al grande pubblico, in fin dei conti, non di uno con pretese di essere adottato come riferimento in un corso universitario (che, poi, te li raccomando, quelli): è la voce di uno che vuol condividere e mettere alla prova le sue opinioni. Se ci sono cretinate, non censuriamole, mostriamole, magari mettiamole anche alla berlina; e se ci sono banalità o intuizioni vaghe, ma interessanti… be’… non ci è andata poi tanto male, no?
E, vi dirò, il titolo del saggio dovrebbe rendere anche voi del mio stesso avviso: La dittatura del denaro. E il sottotitolo è ancora più eloquente: Contro le menzogne dell’economia. Ah, come mai, cosa dovremmo dedurre da ciò? Semplice, che il saggio di Andreoli non ha (troppe) pretese scientifiche, è decisamente orientato sull’aspetto etico e morale dell’economia. E sappiamo che, in tema di etica, le opinioni hanno pari autorità rispetto ai fatti. Anzi, forse hanno un’autorità anche superiore.
Ottanta e passa anni di passione
Ma va bene, tutto questo per stabilire preventivamente qual è l’atteggiamento corretto da tenere, nel valutare La dittatura del denaro. Appunto, seguendo questa linea di condotta, mi va di sottolineare, come primo e fondamentale punto della recensione, l’incredibile passione e vitalità del nostro autore. Lo so, lo so, non è niente di nuovo, l’avevo messa in luce pure l’altra volta, commentando Homo stupidus stupidus. Però davvero, c’è ancora da restare ammirati, e in questo caso forse anche di più: l’avete già notato dalla citazione riportata poc’anzi, Andreoli non si fa troppi problemi a parlare papale papale. Di là dagli scherzi esagerati su Salvini (che personalmente non odio, lo trovo solo… buffo), le parole del nostro autore rappresentano in effetti un pensiero molto diffuso. Sul serio, voi non avete il sentore, il dubbio, o direttamente la certezza, che, sì, in un senso preciso “ci guadagnerà il Paese tutto”, ma in un senso ancor più preciso ci guadagneranno le mafie e basta? Mah, può darsi che non sia proprio così, nondimeno il sospetto c’è, giusto? Ecco, ora ditemi quante volte in televisione, sui giornali, alle conferenze… ditemi quante volte avete udito parole schiette quanto quelle di Andreoli. No, ditemelo davvero, perché io bazzico poco la televisione e il resto, quindi… ehm, il punto è che io non ne ho sentite, ecco.
Ne La dittatura del denaro, invece, sbem!, mi becco una pizza. Cioè, non me la becco tanto io, se la beccano il governo, le associazioni, gli enti locali… insomma, tutti quelli che ogni giorno la menano con “positività” e “voglia di fare”, ovviamente “per il bene del Paese”. Fantastico, dopotutto è un po’ il sale della democrazia. Un sano “che cazzo stai a dì, a lurido?!”, intendo. C’è forse un tantino da preoccuparsi, nel nostro caso, constatando che una tale verve combattiva e disillusa (almeno per ora, vedremo poi che non è proprio così) viene da uno psichiatra ottantaquattrenne. Di nuovo: ehi, Fusaro, dove sei, dormi? Dovresti essere tu il… “filosofo”… “giovane”… “economista”… “rompipalle”… no? No, al solito. Mi sembra che il Diegone nazionale abbia ormai esaurito i suoi quindici minuti, tuttavia ogni tanto ancora si sentono le eco delle sue originalissime e ficcantissime invettive. A proposito del ponte sullo Stretto, non so se ha già detto la sua (uh… di nuovo, se voi ogni tanto visitate il suo sito o il suo canale Youtube, informatemi), però mi ricordo, ad esempio, delle sue sparate quando c’era la questione dei no-vax. Parole proprio al limite del complottismo, nel senso che neppure i complottisti volevano sottoscriverle, eh, eh, eh, eh. Naturalmente, il nostro “filosofo”, e così tanti altri, al tempo non avevano per nulla intuito il nocciolo del fenomeno no-vax (da intendersi nella sua manifestazione più ampia, non nelle sue frange “weird”). Oh, sorpresa, sorpresa! Ecco che ti ritrovo, proprio qui ne La dittatura del denaro, un passaggio lucidissimo, che da solo e in differita, per così dire, umilia sia Fusaro, sia i supposti “antiFusaro” che giusto qualche anno fa tentavano di zittire il filosofastro:
Uno dei settori che venne più colpito dall’inchiesta [Mani Pulite] fu l’industria farmaceutica, in cui si raccolgono i gruppi che per statuto si dedicano alla ricerca scientifica e alla produzione di farmaci, i quali devono essere approvati dallo Stato per entrare nelle terapie prescritte dai medici. Il nucleo centrale del crimine era dato proprio dal processo di approvazione del nuovo farmaco, a cui era preposta un’istituzione, con una componente scientifica e una amministrativa, regolate da leggi dello Stato. A capo dell’organizzazione era, allora, un personaggio [Duilio Poggiolini, se ho capito bene] che aveva fama di scienziato e che era di fatto il responsabile sia dell’approvazione del farmaco, sia del prezzo che avrebbe avuto sul mercato.
Era previsto un aumento del prezzo per quei farmaci che avevano richiesto un grande impegno di ricerca scientifica. Si poteva giungere a un 20-30% in più. Questo riconoscimento veniva assegnato invece per corruzione. Ciò implicava che alla nascita di un farmaco il «corruttore», d’accordo con il «corrotto», potesse condurre una ricerca non solo meno attenta e approfondita per ottenere l’approvazione dei farmaci, ma persino godere dell’aumento di prezzo per il riconoscimento di una «encomiabile» ricerca scientifica.
D’accordo, Andreoli si riferisce agli anni Ottanta e Novanta, non si parla né di vaccini né di no-vax. Però, mi dite voi se tale briciola di memoria storica non è di estremo interesse? Il malcontento nei confronti del vaccino anticovid, nella stragrande maggioranza dei casi, aveva origine proprio nell’estrema sfiducia nei confronti dello Stato, sfiducia non campata in aria, ma fondata su episodi come quello ricordato nel saggio. Ebbene, lettori, durante la pandemia s’è mai sentito un dibattito serio, che considerasse i timori, legittimi, a questo punto, di tanti cittadini, e che provasse a dissiparli correttamente ed efficacemente? No, ovvio: ogni giorno i mezzi d’informazione proponevano lo svitato farfugliante con la bocca piena di adrenocromo e di microchip, e le teste d’uovo si compiacevano nel reggere le palle allo Stato, in sostanza ripetendo: “Tu fai quello che diciamo noi e zitto, coglione”. Ricordo bene, o no?
Ecco, il nostro autore, direi, non è affatto un no-vax, tant’è che appunto manco accenna direttamente alla questione. Eppure non teme di (ri)mettere nero su bianco uno dei tanti momenti mostruosi della nostra democrazia, invitandoci alla riflessione. Sì, perché Andreoli stesso si serve di tale scandalo per sostenere la sua idea secondo cui l’economia, nello specifico italiana, è di fatto marcia e malefica (grossomodo, è un’estrema semplificazione, ma concedetemela), tuttavia noi stessi possiamo ricamarci su, per così dire. Io l’ho fatto, l’avete appena visto: quando ho letto quel brano, di là dalle parole di Andreoli, mi è subito venuto in mente il riferimento alla situazione dei no-vax. E, badate, confesso che io neppure la conoscevo tale vicenda, di Poggiolini: sono nata a metà degli anni Novanta, Tangentopoli era già finita, e quando sono diventata adulta… eh… ve l’ho detto, chi ne parla più, ormai?
Quindi… be’, non male, mi è piaciuto. Se un saggio deve essere qualcosa di più che un semplice diversivo, allora La dittatura del denaro è fatto a regola d’arte, lo ammetto. Mi ha… sì, mi ha sicuramente insegnato qualcosa. E mi ha anche dato la carica. Cioè, l’indignazione, la preoccupazione e la tensione di Andreoli sono contagiose. In quest’occasione, mi sbilancio senza paura, il coinvolgimento emotivo è anche maggiore rispetto a Homo stupidus stupidus. Non ritengo ciò un requisito fondamentale di un saggio, forse lo è del pamphlet… uhm, ma mi sa che La dittatura del denaro è proprio un pamphlet, a questo punto… ehm, dico, non è un requisito fondamentale del saggio, tuttavia fa molto piacere, quando un libro “serio” si mostra capace di toccare le corde dei nostri sentimenti. Devo confessare che mi è capitato raramente, con opere “non fiction”, e a questo punto posso ritenere il nostro autore una garanzia.
Le tasse sono una cosa bellissima, ma non Italia
A ulteriore sostegno della capacità di coinvolgere de La dittatura del denaro è quest’altro brano, in cui Andreoli tratta delle magie fiscali possibili solo nella Repubblica delle banane in cui viviamo:
Senza ombra di errore, si può affermare che l’evasione è tendenzialmente usata dalle imprese e non dai loro operai. Con un’estensione pecuniaria a questa tendenza, si può aggiungere che a evadere sono i più ricchi nel Paese.
[…]
L’Italia ha una delle tassazioni più alte, sia per i redditi personali sia aziendali, e, indubbiamente, l’entità del versamento stimola ancor più la pulsione a evadere. In alcuni Paesi la tassa in alcuni momenti è stata portata per tutti (flat tax) al 15% e si è dimostrato che, tanto più bassa è la percentuale di reddito dovuta allo Stato, minore è l’evasione.
È anche risaputo che, con l’apertura dei mercati e con la possibilità di de-localizzare le sedi industriali o legali, le imprese tendono a spostare l’attività nei Paesi a bassa pressione fiscale.
[…]
La più grande azienda storica italiana, la Fiat, ora parte di un gruppo industriale associato, ha il domicilio fiscale in Gran Bretagna e legale in Olanda.
[…]
Si è creata una regola che sembra paradossale. L’azienda desidera avere una verifica fiscale, gli organi competenti entrano dunque negli uffici aziendali e controllano tutte le operazioni economiche e finanziarie. L’accertamento medio ha la durata di quindici giorni ed è atteso che l’organo di controllo rilevi operazioni irregolari.
Ed ecco il coup de théâtre: nell’incontro tra proprietà, amministratore delegato e funzionari dell’accertamento (ufficiali dello Stato), viene stabilito che il bilancio è falsato e che in base ai rilievi la penalità ha una data consistenza, ma che è possibile ridurre al 10% l’esazione reale, versando come compenso una «tangente» che viene quantificata. Lo scopo aziendale è raggiunto: si stabilisce che una verifica avverrà ogni due anni, in certi casi annualmente, ma l’azienda sa esattamente che può falsare con regolarità i bilanci, e così aumentare l’evasione erariale. E ha la certezza o, in altri termini, la tranquillità, di presentare i bilanci, con il versamento di una tangente, comunque irrisoria, rispetto al 42% richiesto per legge.
[…]
Questa «serena» pianificazione criminale gode di un grande privilegio grazie a uno Stato severissimo in materia fiscale ma che, allo stesso tempo, dispone per legge che i bilanci aziendali non possono essere soggetti a verifica retroattiva oltre i cinque anni.
Lettori, lo stralcio è lungo, lo so, però ritengo meritasse di essere riportato quasi per intero. Non tanto per il contenuto, che per alcuni, specie per i laureati all’università della vita (no joke), può essere una banalità (e, confesso, non ho controllato che sia effettivamente tutto vero quel che dice Andreoli), bensì per il modo in cui tale contenuto è proposto. In una società che a ogni piè sospinto ci rammenta la bellezza dei balzelli, al contempo minacciando di spaccare il culo a chi non versa il dovuto, vedere lo Stato tratteggiato come un ladro che amoreggia con i capitani di industria, il culo rompendolo solo agli onesti signor nessuno, fa quasi bene. Quasi, eh.
Posso dirvi che in prima persona ho assistito a “furti legalizzati” (ma pure voi, ne sono sicura, lettori), e ogni volta che mi capita di sentire la rituale lode della pressione fiscale italiana, mi ribolle il sangue. Non solo le lodi mi fanno incazzare, però: se possibile, mi irritano immensamente di più le costanti sparate degli “antisistema”, quelli (non voglio dire Salvini, Meloni e compagnia, però sono sicura che voi potrete aggiungere altri nomi) che, saggiata l’aria che tira, la menano con la loro soluzione finale al problema delle tasse. Soluzione finale che, alla fine appunto, sparisce sempre senza lasciare traccia. Ma c’è da aspettarselo, perché se consideriamo bene le parole di tali sparate, notiamo che la loro “forza” sta nella vaghezza, nell’estrema generalizzazione, nell’enfasi sul puro stato emotivo dell’uditorio.
Mi viene in mente ancora Fusaro, quando in Difendere chi siamo ce l’aveva con i Benetton. Seeee, “ce l’aveva” è un parolone: se anche voi ricordate, non faceva nomi, non menzionava eventi, non forniva alcun dato. Era solo un fumante Paperino che batteva i pugnetti contro il “gender”, “gli arcobaleni”, “gli apolidi della finanza”, e i “supponiamo che un manager”. Fare il radicale senza rischi, dire tutto senza dire un bel niente. Perché Fusaro ha un atteggiamento garbato, mica è uno sboccacciato come me, replicate voi. Ah… com’è allora che è possibile indignarsi e arrabbiarsi garbatamente, facendo però nomi e cognomi senza sconti? No, perché è proprio ciò che avete visto nel brano che ho riportato. Andreoli non teme di nominare la Fiat, ormai brufolo di Stellantis: non la definisce sicuramente un covo di rapinatori opportunisti, tuttavia è messo lì, su carta, la Fiat, proprio la Fiat!, qui in Italia non ha legami. Quando pagherai le tasse e in televisione vedrai il governo sostenere che sì be’ boh, comunque è un bene che la Fiat prenda parte dei tuoi versamenti, ricordati che la sede fiscale è nel Regno Unito e quella legale nei Paesi Bassi. È questo il messaggio del nostro autore, in fondo, e intuirlo è fatica da poco: cioè, è lì alla luce del sole. Invece, con Fusaro bisognava disporre di una certa dose di perspicacia e di malizia, per capire che la sua indignazione era rivolta ai Benetton. Ma lo era davvero, poi? Stesso discorso se al posto del povero Fusaro si ritorna a usare come punching ball i vari Salvini e Meloni, ovviamente. E il bello è che tutti si presentano come “polemici”, come “antisistema”, appunto.
Almeno non c’è dubbio, La dittatura del denaro si presenta come polemico ed È polemico! E l’approccio autenticamente garbato di Andreoli, ripeto, permette di essere quasi confortati dalla polemica stessa. Non si tratta di attizzare la nostra adrenalina, per spingerci a “comprare”, strategia a fondamento di tutti i talk show urlati e straurlati: no, secondo me il nostro autore vuole davvero essere d’aiuto, e benché la polemica necessiti di adrenalina, è altresì necessario che quest’ultima, perché la polemica divenga costruttiva e non sterile, non sia tanta da annebbiare il cervello. Quindi Andreoli non fa sconti, ma neppure si lascia andare, perché credo che voglia a un tempo spronarci e rassicurarci. Nel senso: sì, viviamo in una società da schifo, sotto certi ben noti aspetti, però non dobbiamo sentirci disperati e confusi. Dobbiamo sapere che non siamo gli unici a pensarlo, dobbiamo sapere che possiamo trovare conforto in coloro che, al pari nostro, hanno capito. E dal conforto nascerà la sicurezza, e dalla sicurezza verrà la forza che permetterà di affrontare i problemi che ci affliggono.
Ma il medico pietoso fa la piaga purulenta?
Li risolveremo, questi problemi? Ma ovviamente no, LOL! Cioè, non li risolveremo seguendo i consigli del nostro autore. Sì, quando si tratta di bacchettare lo Stato e in generale la società italiana, La dittatura del denaro mi trova d’accordissimo (perché sono un po’… un po’… un po’pulista, sigh!), ma quando si tratta di tratteggiare la strategia per raddrizzare la povera Repubblica… ossia quando si arriva alla seconda metà del libro… meh, io me la squaglio.
Occhei, così è un tantino esagerato: intendiamoci, non sto dicendo che Andreoli oggettivamente sbaglia su tutta la linea. È solo che non condivido le sue opinioni, il suo ottimismo. Senza sorprese, perché già l’aveva detto con chiarezza in Homo stupidus stupidus, il nostro autore ci propina il suo umanesimo cristianeggiante e fiducioso nell’intrinseca bontà degli esseri umani, prospettiva che si può riassumere con questi stralci:
Forse si tratta di un’utopia, ma certamente la personalità permette variazioni che richiamano le metamorfosi e un mondo di fiaba, che si trasforma al tocco di una bacchetta magica.
[…]
[V]ariabili talmente vaste da aver portato a indicare l’uomo come essere libero.
[…]
La libertà ha senso solo dentro i limiti e la si esprime proprio superando con la propria forza i limiti insopportabili.
Se si è uomini di coraggio, si ha bisogno anche di Dio.
Non esistono metamorfosi né servono le utopie in cui è possibile fingere che gli uomini si siano tutti trasformati in buoni e il male non esista più.
[…]
L’esistenza è una straordinaria avventura, che deve tendere a promuovere in tutti gli uomini il bene e, operando con questo fine, fare il possibile per evitare il male. Un binomio che è dentro la carne dell’uomo, ed è per questo che devono esistere principi, desideri, per regolare questo strano «animale umano» fatto anche di male.
[…]
L’espressione «economia del bene» vuole indicare una disciplina che insegni a guidare una casa e una società, promuovendo il bene, attenti sempre alla possibilità e al rischio del male.
Eh… ’nzomma, io rimango perplessa, e non solo per qualche sfumatura contraddittoria che mi pare di cogliere. No, sia chiaro, non voglio dire che simili parole sono di un’ingenuità imbarazzante, non mi sento di dare un giudizio tanto duro. D’altra parte, vedete da voi, Andreoli stesso, restando sempre coerente, è consapevole del carattere altamente utopico di alcune sue intuizioni. Nondimeno, per me è tutto l’impianto in generale a essere traballante. Per quanto La dittatura del denaro mi trasmetta l’effettivo entusiasmo del suo autore, io non riesco a credere che l’uomo, per quel che conta, sia qualcosa di più che uno degli animali, immerso in una realtà (almeno a un certo livello) rigidamente meccanica e deterministica. Anzi, in definitiva, sospetto che tutti i maggiori mali che sperimentiamo siano radicati nella parte più profonda della nostra natura ferina, parte che nessuno sforzo di volontà, di cultura, o di altruismo, o di religione o di decenza potrà mai modificare. Amaramente io temo che l’unico mezzo per cambiare davvero le cose sia la cara vecchia domesticazione, che è in fondo un tipo di selezione naturale. No, non parlo di “metamorfosi”, di “trasformare l’uomo”, di “promuovere in tutti gli uomini il bene”, non sono un’utopista: senza eufemismi, per addomesticare una specie bisogna eliminare gli indesiderabili e al contempo far prosperare i desiderabili. Ossia, nel nostro caso, eliminare i malvagi e far prosperare i buoni (oh, non è mica un’invenzione mia, ricordate il motto dei Romani, che la sapevano lunga: “parcere subiecti et debellare superbos”). Ma, ehi!, la domesticazione è un mezzo ancor più irrealizzabile di tutti gli altri, nel caso dell’uomo: già, perché appena si delinea la questione, si comincia con le obiezioni, obiezioni che probabilmente hanno tutta la ragione dalla loro. “Eh, come i nazisti!”… “chi sono i malvagi?”… “chi decide, tu?”… “e pensi che quelli staranno a guardare?”… “ma i buoni come faranno a difendersi?”… “la violenza non è forse necessaria per progredire?”… “e poi si finirà per essere tutti uguali, cioè per stare tutti ugualmente peggio?”… e via così, avete capito.
Provocazione assoluta la mia, estrema, e col solo scopo di mostrarvi che no, inutile pressarmi, non ho affatto un’idea migliore, più realistica e realizzabile, da contrapporre a quella di Andreoli, LOL. Tuttavia la sua non mi convince e non mi convincerà mai. Pertanto, sì, lo ammetto, la seconda parte del libro è stata per me anche un po’ pesantuccia, appunto perché, mia personale sensazione, non mi porta davvero da nessuna parte. Però, però, però, ciò non implica che non l’abbia trovata godibile al pari della prima. Se, come già accaduto col precedente saggio, io considero La dittatura del denaro una specie di “conversazione” che il suo autore sta avendo con me, allora posso continuare ad apprezzarlo, senza che venga meno la voglia di andare fino in fondo. Insomma, dico io, come si fa a non amare un uomo che scrive cose del genere? Guardate:
A queste considerazioni su una ricchezza dal volto umano, occorre aggiungerne un’altra che si accompagna a un alone di tristezza. Si riferisce ai molti casi di persone impegnate che hanno creduto e con passione perseguito un piano, per creare un’impresa sostenuta da idee che sembravano impiantarsi proprio su bisogni rilevati tra la gente, ma alla fine non sono riusciti a emergere. E non solo non hanno apportato i benefici programmati, non solo non hanno costruito una ricchezza ma, come si usa dire, sono falliti.
In questa lunga esperienza nei laboratori e nelle corsie in cui erano ricoverati i malati con disturbi del cervello e della mente, ho potuto osservare scienziati che hanno ottenuto risultati straordinari, segnando conoscenze che, oltre a dare contributi importanti, aprivano al contempo nuovi sentieri della ricerca. Nomi che sono passati alla storia e qualcuno che è stato insignito del premio Nobel.
Accanto a queste storie ho conosciuto, ancora più numerose, persone che hanno espresso lo stesso impegno, la stessa passione, applicandoli a idee e a ipotesi scientifiche che si sono, invece, mostrate errate e che hanno richiesto le stesse metodologie, magari un impegno ancora maggiore, utilizzate da quelli che hanno avuto successo.
Oh, veramente mi scalda il cuore leggere una tale sensibilità a proposito dei “perdenti”. In un mondo americanizzato come il nostro (non che gli americani abbiano inventato niente, eh, ne hanno soltanto fatto uno stile di vita dichiarato), in cui il successo è la misura del valore di una persona, quante volte capita di imbattersi in qualcuno che rivolga un pensiero agli sfortunati, avendo bene in mente ciò di cui parla? E fate bene attenzione a questa mia precisazione, che vuole eliminare dalla conta tutti i vari tizi che, da questo o da quel balcone, ritualmente parlano degli “ultimi” aggiornando la definizione del termine a seconda della moda (geopolitica) del momento.
Appunto, una parola buona, sincera e consapevole per tutti quelli baciati dalla sfortuna è una perla nera. Ma ne La dittatura del denaro se ne trova proprio una, ’azz! E in sé le parole del nostro autore mi sembrano a un tempo accusa e rimedio: accusa nei confronti di quella comunicazione inutilmente aggressiva e sprezzante che ci ritroviamo dappertutto, e rimedio ancora nei confronti della stessa comunicazione, perché appunto si vede che è possibile non ragionare al modo dei “deboli coi forti e forti coi deboli”.
Si tratta di un vero, efficace rimedio? Eh, eh, per me no, ribadisco: il fuoco è meglio combatterlo con fuoco più grande e irresistibile (li hanno spenti così i pozzi di petrolio incendiati da Saddam, no?), tuttavia apprezzo molto la compassione e la compostezza, quando le incontro. Perfino quando si tratta di compassione e compostezza oggettivamente eccessive, come in questo caso:
Non bisogna smarrirsi dentro le immagini di un uomo buono, e nemmeno perdersi nell’idea di un uomo che sia soltanto malvagio. Ad Auschwitz, Josef Mengele, ammazzava i bambini ebrei e con la loro cute confezionava delle bambole, che portava alle proprie figlie, per esprimere il suo bisogno d’amore. Donato Bilancia è passato alla storia come il più efferato criminale italiano del Novecento, poiché ha ammazzato in sei mesi diciassette persone, senza che nessuna di loro avesse espresso azioni contro di lui, eppure aveva una particolare sensibilità e affetto per i bambini.
Ah… eh… magari anche sticazzi? Cioè, chi se ne frega se c’è un po’ di bene, prendiamo un lanciafiamme e vediamo di non lasciare il lavoro a metà, ché poi ci ritroviamo punto e a capo.
Ma sì, ma sì, in realtà Andreoli non va oltre, magari dicendo di piangere per Mengele o per Bilancia, solo ci raccomanda di considerare che al mondo non c’è niente che sia tutto bianco o tutto nero, niente. E d’accordo, va bene. Però, pur non potendo negare alla radice la verità della massima, io continuo a pensare che non ce ne deve fregare un tubo se i peggiori bastardi conservano un briciolo di tenerezza. E comunque non mi sento di considerare esagerato il nostro autore: anzi, se contiamo che lui, come me, vive in un paese che risarcisce (che costringe a risarcire) e che addirittura premia rapinatori, stupratori e assassini, Andreoli può pure passare per giustizialista radicale. Lui e Carofiglio, il quale, me ne accorgo ora, è l’unico altro che fino a questo punto ho trovato preoccuparsi davvero per gli sfortunati. Certo, anche lui ve lo raccomando, confusionario e sentimentale com’è: tuttavia, la compassione non gli manca, e in mezzo a tanti supposti filantropi, spicca per la sincerità che le sue parole trasmettono. Proprio come Andreoli, appunto. E io, anche solo per questo, li rispetto e li apprezzo entrambi.
Homo oeconomicus oeconomicus
Lo, lo so, voi ora siete lì e mi dite: “Ma Sara, ’ndo ca**o sta l’economia, in questo saggio di economia?”, e… eh, non avete tutti i torti, non ne ho praticamente fatto menzione sino a questo punto. Da quel che avete visto, sì, ci sono dei richiami all’economia, ma sono tutti molto, molto vaghi, e il tema principale è, come vi avevo anticipato, prettamente etico. D’accordo, però io avevo parlato di etica dell’economia, non di etica e basta, quindi qualcosa di tecnico dovrà pur esserci, no? C’è, in effetti, il nostro autore non è un furbacchione, lo sapete.
Nondimeno, lo ripeto ancora una volta, sapete pure che Andreoli non è ferrato in economia. E ho rimandato il commento sulle affermazioni più “scientifiche” de La dittatura del denaro proprio per questo motivo. Eggià, ci sono degli svarioni, esattamente come accadeva in Homo stupidus stupidus.
Il primo? Eccovelo:
[…] Homo sapiens sapiens […].
LOL, certo, non c’entra niente con l’economia, ma non ho resistito, eh, eh. Editor, mi rivolgo a voi, perché in fin dei conti questo dovrebbe essere compito vostro: le vogliamo correggere queste cazzatine, innocenti sì, ma pur sempre cazzatine? Non è che bisogna limitarsi a togliere la “b” extra da “bbibite a tuo carico” (quando vi ricordate di farlo), è altresì parte del lavoro raddrizzare le nozioni storte degli autori, almeno quelle più evidenti e facili da cogliere. Nel nostro caso… uff… di nuovo: no, la nostra specie è Homo sapiens, non abbiamo sottospecie, punto! Ma che parlo a fare?! Cioè, “Homo sapiens sapiens” compare al traino di questa infelice frase…
Si conosce abbastanza bene attraverso l’archeologia che, nell’evoluzione, si sono susseguite forme umane distinte proprio per la capienza del cranio che contiene il cervello.
… che confonde bellamente la paleontologia (meglio, la paleoantropologia) con l’archeologia!
Vabbè, dai, non perdiamoci. L’economia. Ecco, una convinzione di Andreoli, a proposito della natura del denaro, è la seguente:
È entrato nei commerci come la soluzione al baratto, nel momento in cui con la navigazione occorreva trovare un sistema che evitasse il bisogno della presenza dell’«oggetto» allo scopo di scambiarlo con un altro.
A quanto pare, il nostro autore sostiene che, a un’economia fondata sul baratto, a un certo punto nel corso della Storia si sia sostituita un’economia “simbolica” fondata sul denaro, e ciò a causa del commercio marittimo. Se ho interpretato correttamente (se no, mi scuso), bisogna notare che… uh… non è così semplice. La vera origine del denaro, e con “denaro” sono da intendersi non soltanto monete e banconote (ma anche le conchiglie e i capi di bestiame dei tempi remotissimi), è al momento ignota, e credo che nessun economista, neanche dilettante, se la sentirebbe di affermare che “il denaro è nato così e cosà, fine”. Sicuro, quello di Andreoli non è un palese errore, tuttavia il nostro autore è troppo sicuro, e prende per fatto un’ipotesi, tra l’altro molto particolare. Ancora, non mi stupisco troppo, un simile atteggiamento permeava, indovinate un po’?, Homo stupidus stupidus, e in effetti ci sono altri esempi ne La dittatura del denaro, anche slegati dal discorso economico, come il seguente:
La psiche, oggi lo sappiamo, è l’insieme delle funzioni mentali che emergono dal cervello.
Cioè, non è che “lo sappiamo”, è un’ipotesi, magari la più accreditata (onestamente non sono convinta che, posta in tal modo, lo sia davvero), ma ancora un’ipotesi. E “psiche” andrebbe definita meglio, perché così è un termine un po’ vago: uno come David Chalmers, per dire, potrebbe anche concordare sul fatto che memoria, emozioni e simili siano effettivamente funzioni cerebrali, ma se con “psiche” si intendesse la coscienza, o ciò che va sotto il nome di “qualia”, be’ allora batterebbe il pugno sul tavolo. Quindi, la mia avvertenza è la solita: bisogna stare un po’ attenti durante la lettura, e non prendere per oro colato tutte le affermazioni che si incontrano, per quanto apodittico sia il loro tono.
Diavolerie moderne
D’accordo. Per tornare all’economia pura, rimanendo però sulla scia delle mie osservazioni, abbiamo altri passi del libro che lasciano un tantino interdetti:
Il denaro rivoluziona tali dimensioni, crea il senso di «proprietà», come ciò che non si usa e induce la prospettiva del futuro e del risparmio.
La ricchezza si può infatti definire come un bisogno inesauribile di denaro, che non serve però a soddisfare bisogni che sono già risolti, escluso quello di poter avere ancor più denaro, pur non rispondendo alla funzione per cui è nato.
Si può sempre stabilire, in un dato momento storico, quanto denaro serva per realizzare i bisogni primari di un uomo.
Sono richiami che trovano una più ampia descrizione nelle opere di Karl Marx che, in sintesi, riteneva la proprietà un «furto» […].
Uhm. Allora, non sono sicura che il senso di proprietà e del risparmio siano “creati” dall’introduzione del denaro: insomma, la proprietà non è alla base anche del baratto? E si possono barattare beni che “non si usa[no]” e stanno lì ad accumularsi (si possono barattare le figurine, no?), o beni che si useranno, ma in seguito (certe derrate alimentari non deperibili, come le nocciole per gli scoiattoli). Quindi non so… ho capito male io?
Poi, la ricchezza definita come “bisogno inesauribile di denaro”… mmmh… non è l’avidità, quella? Dal punto di vista economico-scientifico, mi pare che la ricchezza sia semplicemente definibile come disponibilità di denaro o di beni materiali convertibili in forme adeguate alle transazioni. E mi pare oltremodo dubbio che si possa “sempre stabilire” quanto denaro serve per realizzare i bisogni primari di un uomo qualunque: se così fosse, sarebbe crollata l’Unione Sovietica? No, sul serio me lo domando.
E per quanto riguarda il terzo brano… eh, eh… no, “la proprietà è un furto” è uno slogan di Proudhon, e non può affatto riassumere il pensiero di Marx, il quale anzi da un certo punto in poi si era convinto che proprio tale idea di Proudhon fosse una puttanata contraddittoria e confusa.
Da ultimo, voglio riportare uno strano passaggio de La dittatura del denaro, passaggio, ancora, non molto economico di per sé, ma che, essendo io un’incorreggibile millennial, mi fa sorridere non poco:
Il bisogno di segretezza va difeso attraverso le password, segrete a tutti con l’esclusione della Microsoft che è sotto il controllo del ricchissimo Bill Gates, l’unico che la conosce così bene, da avere il compito di impedire che il programma si apra se non vi è inserita la password giusta.
[…]
Impossibile opporsi all’aggiornamento: viene comunicato entrando nel computer e, annunciandolo quindi educatamente, Bill Gates chiede se è possibile inserirlo in quel momento, interrompendo l’uso del computer che se ne sta facendo.
Si può in tal caso dire di no ma entra la domanda su quando sarà possibile portare il sistema operativo Windows alla migliore funzionalità. Si può resistere, nella convinzione che così com’è, per chi ha acquistato quel programma, soddisfa in pieno le proprie esigenze. Ma non è possibile, perché l’aggiornamento viene installato in un momento in cui il computer è chiuso. Chiuso, ma non per lui che ne ha la chiave di accesso, senza disturbare, con la stessa abilità con cui un ladro entra in casa e ruba, mentre i signori dormono.
[…]
Ammettiamo comunque che un drogato [dei computer] decida di non comprare la nuova versione di Windows. Si accorge che, aprendo il vecchio Windows, trova la notizia che da quel momento non verrà più aggiornata. Il che significa che tutti gli altri hanno invece la nuova versione che non è compatibile e non è sintonica con la vecchia. Viene esclusa, così, ogni possibilità di evitare l’acquisto del nuovo, poiché il proprio computer perderebbe la primaria funzione della comunicazione necessaria agli scambi informativi e legati anche al proprio lavoro. Non resta che digitare subito i clic che conducono al sito di Bill Gates, e procedere all’ordine.
Abbiamo tracciato un racconto, che a me pare molto triste, sul software più usato, ma la stessa storia vale per tutti gli altri. E dopo questa affermazione, mi pare impossibile che esista ancora qualcuno convinto che il computer digitale e lo smartphone esprimano la «grandezza» e non la «povertà» del tempo presente.
LOOOOOL! Non me ne voglia Andreoli, ma non ce la faccio a non figurarmi il simpatico nonnino che si incazza come una bestia perché il computer sembra andare per conto suo e gli presenta opzioni su opzioni che non si capiscono e poi fa quei cacchio di rumori lì e poi si blocca porc***** ** ******* ’ste diavolerie moderne! Occhei, non è tutto tutto campato in aria, insomma il caro Bill è uno dei soliti noti, chiedete all’Antitrust, però… in generale il discorso, con la sua enfasi, con le sue similitudini ardite, con il suo totale disprezzo per la (vera) funzione degli aggiornamenti, con la sua cazzuta ignoranza dei sistemi open source, e con la sua chiusa un po’… ehm… rétro… è involontariamente comico. Almeno per me, ripeto, che sono una millennial fastidiosa. E poi magari il saggio non è manco rivolto ai millennial, ’azz…
E io termino così, con una bonaria presa in giro che non ho censurato perché… perché sì, Andreoli mi piace, e so che ha in grande considerazione noi scapestrati ggiovani (lo manifesta chiaramente, leggete La dittatura del denaro e capirete). Che poi, noi millennial siamo ormai biologicamente vecchi… uhm… però siamo giovani dentro, no? Il nostro tenero modo per dire che siamo immaturi, eh, eh, eh… eh.
Dunque, bando alle ciance. Come devo valutare questo libro? Tre stelle? Quattro stelle? Tre? Quattro? Uhm. Voglio bene ad Andreoli, perciò quattro. Ma sì, non posso dire che sia un saggio sconclusionato: ha i suoi alti e bassi, non è una lettura imprescindibile, a rigore non può neanche ritenersi un manuale per l’uomo della strada, ma… non fa danni, contiene non poche osservazioni corrette e, soprattutto, trasmette la vicinanza e la preoccupazione del suo autore (quest’ultima c’è anche nei saggi del Gianni, ma lui si becca l’affettuosa monostella perché… sapete perché). Ancora, non conosco personalmente Andreoli, pure lui al pari di tutti gli altri è un mio “amico di carta”, tuttavia mi fa piacere leggere i suoi libri, e la sua prosa mi induce sempre a voler andare fino in fondo, a volere che condivida sinceramente le sue opinioni con me. Quand’anche, alla fine della fiera, io non sia d’accordo con esse.
Certo, quest’aspetto “sentimentale” del mio commento è del tutto secondario, rispetto a quanto di oggettivo si può dire su La dittatura del denaro, però non credo che per voi sia totalmente inutile. D’altra parte, se praticamente ogni altro litblog dell’internet si basa SOLO sulle impressioni emotive (e trovatene di brutte!) che questo o quel libro ha lasciato nel recensore, che non posso io concedermi di giudicare positivamente un testo perché mi trasmette simpatia per il suo autore?!
Oh, insomma, per riassumere: se va bene a me, buona camic… ehm… buona lettura a tutti!