Chi dice e chi tace – Chiara Valerio
Improvvisamente pensavo troppo alle mutande degli altri […].
Viva Chiara…
Ah, ottobre. È il mio mese preferito, e non solo perché compio gli anni. No, aspetta, però compio gli anni, quindi invecchio: oh, cacchio, ora mi serve un drink. Oh cacchio! Non c’è nemmeno una goccia d’alcol in casa!
E vabbè, sapete come si dice, no? Quando sei giù, appiccia la tivvù che ti tira su! Come, mai sentito prima, questo motto? Ehm… ma vediamo un po’ che dice il telegiornale, eh?
Occhei, allora… oh!
Una pioggia di missili.
Serial killer che dobbiamo educare perché “sentono un vuoto dentro”.
Serial killer che dobbiamo perdonare perché abbiamo perso i valori.
Joker: Folie à Deux.
C’è da fare sacrifici.
Uff, a regà… e voglio di nuovo l’estate, a ’sto punto!
Va bene, non posso tornare indietro nel tempo (non ancora) ma da brava picchiatella posso fingere che sia ancora una spassosissima vacanza. Mi basta stendere il telo mare in salotto, piantare l’ombrellone rovinando il pavimento, e… uhm… mi serve un libro da spiaggia. Un romanzo da italiana media, un… un bel giallo, ma sì.
Voci mi sono giunte che in effetti ha spopolato un giallissimo, durante i mesi caldi. Roba, cioè… roba eh… capito? Roba di livello, da premio. Ah, da premio, mi dicono. E ditelo subito che il premio è lo Strega, no?! Così mi evitate l’ammosciamento dell’hype quando poi scopro che Chi dice e chi tace è in realtà l’ennesimo installment del CVCU (Chiara Valerio Ciulamatic Universe)!
Uff, è già il momento di fare la seria. Voi sapete che, dopo il calcolo proposizionale, io sono la peggior nemica di Chiara Valerio. Giusto? No. Cioè, sì, è vero, sono stata brutale quando ho recensito i suoi saggi, però quelli erano venduti come saggi, pubblicizzati come saggi, discussi come saggi, e contenevano una quantità impressionante di oggettive (oggettive!) stronzate. Se permettete, quando in gioco c’è l’educazione della gggende, mi altero un po’. Tuttavia, so molto bene che una cosa è il libro, una cosa è l’autore, e… un’altra cosa ancora è la persona. Ecco, la persona non la tocco mai sul serio, non posso farlo e non mi va di farlo, ciò che ognuno di noi è, nella propria privata natura, ricade al di fuori dell’applicazione di un qualsivoglia giudizio critico: pertanto, viva Chiara Valerio!
Per quel che riguarda l’autore, uhm, anche qui ci vado più cauta. Non perché l’autore sia intoccabile (in fin dei conti è l’aspetto pubblico di una persona, quindi “commentabile” entro i limiti di tale ruolo), bensì perché so che rischio di lasciarmi influenzare da questo o da quel libro, passando dal giudizio al pregiudizio. Ehm, mi sforzo di tenere la mente aperta, nel senso che, ehi, quel testo faceva cagare, ma non si sa mai, una nuova opera può portare con sé una redenzione.
Insomma, quel che voglio dirvi è che se pure posso avere delle grosse riserve sulla Valerio saggista, per questa Valerio giallista ho resettato le mie aspettative, leggendo Chi dice e chi tace con la testa completamente vergine di idee preconcette. Quindi, potete star sicuri che il mio pensiero non è viziato dai precedenti passi falsi. E, al netto di tutto questo, il mio giudizio finale è… oh, no, non ancora, adesso vi beccate la trama. Ah, e vi avverto, nel corso della recensione troverete tantissimi spoiler.
Anni Novanta, New York. Uno specialista in telecomunicazioni e sistemi informatici decifra uno strano segnale proveniente dal cosmo, scoprendo che i visitatori alieni appena giunti sulla Terra vogliono distruggere l’umanità…
Eeeeeh, cor chezz!
Anni Novanta, Scauri. SCAURI. In ’sto bucio de culo (saluto gli scauresi, non vogliatemene, però… dai, lo sapete anche voi) l’evento DEFCON 2 è la morte di un’ultrasessantenne, di cui non mi sono preoccupata di imparare il nome. Allora, praticamente questa vecchia (che chiameremo d’ora in poi “la vecchia”) ha un incidente di qualche tipo e affoga nella vasca da bagno. Va be’, è tragico, ma succede. Non a Scauri! Il paesino, che in realtà è una frazione, è infatti profondamente scosso, anche perché la vecchia, una forestiera arrivata a Scauri solo vent’anni prima, era molto amata per la generosità e per l’ospitalità con cui accoglieva chiunque. Sì, apriva la porta e zac, il piattolone di turno ci si infilava. Molto toccante. Però la storia, incredibilmente, non finisce qui. A Scauri c’è una persona che più di tutte è sconvolta dalla dipartita della vecchia: è Lea Russo, che guarda caso è anche la voce narrante che ci accompagna. Ebbene, lettori cari, dovete sapere che… dovete sapere che… che Lea, pur essendo sposata e madre di due bambine, provava per la vecchia una malcelata attrazione omoerotica. Ehm, oooo… oooo… oooocchei. Comprensibilmente, la nostra Lea fatica a rassegnarsi all’idea che l’oggetto del suo desiderio sia tornato alla terra, ed elabora perciò il lutto così come farebbe chiunque: inizia a indagare. Già, com’è morta davvero la vecchia? Che poi, chi era davvero ’sta vecchia? E chi è Mara?
Una pippa di una persona
Grossomodo, vi ho raccontato la trama. E… be’, suvvia, siamo tutti d’accordo: Chi dice e chi tace è un giallo. C’è il morto, c’è il detective, c’è il soggetto dal passato ambiguo, c’è Scauri. Tipico giallo, sostituite Lea con Derrick o con detective Conan e non noterete sbavature.
Ma.
Ma c’è tutto quello che non ho riportato nel riassunto, LOL. E se voi leggerete il romanzo, e se voi terrete in conto quello che non ho riportato, ecco se voi farete tutto questo, vi guarderete allo specchio e tutto ciò che riuscirete a pronunciare sarà un “oh, crap”. Anche se non sapete l’inglese, sì.
Svilupperò tutto questo nel corso della recensione, tuttavia sin da ora lasciate che lo dica: che cacchio è Chi dice e chi tace? A un certo punto, e intendo dopo qualche pagina, sembra piuttosto essere la parodia di un giallo, e proseguendo con la lettura vien perfino il dubbio che sia stato tutto un enorme fraintendimento. Intendo il libro, l’autrice, la candidatura allo Strega. No, non sono solo io a rompere le palle. Se si fa una breve ricerca online, si può vedere che nessuno… NESSUNO… sembra aver capito che cos’è Chi dice e chi tace. Quelli che non amano perdere tempo dietro a queste cavolate (intendo i libri) si fidano della pubblicità e lo definiscono effettivamente un giallo, punto; quelli con l’OCD sentono un pruritino e non possono evitare di chiamarlo “giallo”, sì, ma “con riserva”; i futuri politici di questo Paese, invece, si ergono sulla massa, e ci spiegano che il Valerio-romanzo è un “non-giallo”.
Be’, dai, è la solita faccenda: una roba amorfa e inclassificabile, però, siccome è passata per lo Strega, allora è meglio dire qualcosa, e qualcosa di buono, sennò tutti penseranno che siamo scemi. Comunque, c’è da notare che almeno una persona si suppone che sappia il fatto suo, a proposito del libro. Come “chi?”, l’autrice, no?!
Ora, io non posso mettermi qui e far domande alla Valerio, perché sicuramente non mi può soffrire e non vorrà vedermi manco in foto; ma poiché lei tiene un sacco di amici, grazie al cielo c’è un’intervista fattale dalla Littizzetto. Ebbene, alla domanda “come ti è venuto di scrivere un giallo?”, che secondo me è proprio quella che avete in testa voi, lettori, la nostra autrice risponde così:
Eeeh… posso attaccà la pippa? Breve, però. Io diffido delle avventure interiori, che sono solo interiori, e questo libro è essenzialmente un’avventura interiore, perché è una donna che sostanzialmente capisce, forse teme, crede di sapere di essersi innamorata di un’altra donna… forse è il mio telefono? No no, è il mio… ah no, non è il mio.
E quindi praticamente ho pensato, cosa mi può aiutare per il… per raccontare questa specie di perdita di sé? E ho pensato, be’, affidiamoci a una struttura che assomiglia a un giallo, cioè a un’indagine.
Quindi, per raccontare una pippa di una persona, ho pensato che il giallo fosse la struttura adatta.
Allora, le cose sono due. O alla fine della fiera la Valerio voleva parlare di lesbiche e basta (ma questo già l’aveva fatto nei saggi, quindi… mmmh…), oppure, vedendo il grande Veltroni venir acclamato come “maestro del thriller”, voleva sapere pure lei cosa si prova a essere riconosciuti per strada. E va ben che va ben, però se vuoi essere il “maestro del thriller” almeno un thriller lo devi scrivere: non puoi spacciare un saggio per thriller, ci deve essere un morto, e un morto vero, assassinare la logica e il buon senso non è sufficiente. Perciò, era davvero il caso di cucire intorno al tema della “pippa di una persona” (o di una “persona che si fa una pippa”, non sono sicura) una trama che “assomiglia a un giallo”.
Il grande B(l)ob
Compito difficile, dite voi? Uhm, sì e no. È vero, i gialli, benché letteratura minore, sono complicati da imbastire, e richiedono molta preparazione e prontezza di spirito. Nondimeno, stante come ha poi effettivamente deciso di imbastire Chi dice e chi tace, mi tocca farvi presente che la Valerio non aveva davanti a sé chissà che monumentale fatica.
Eccerto! Ancora vi invito: voi leggete il romanzo, leggetelo, e dopo un po’ vi renderete conto da soli che Chi dice e chi tace non è una creazione originale di Chiara Valerio. È in realtà una specie di adattamento queer e ambientato a Scauri de Il grande Bob, questo sì un giallo fatto da chi se ne intende (Georges Simenon, nel caso l’aveste dimenticato). Ehi!, anche ne Il grande Bob c’è un beneamato tizio (Bob, appunto) che muore annegato e mette in moto la serie di indagini. Occhei, ottimo!, non ho nulla contro i plag… ehm, gli adattamenti creativi. Davvero, sono seria, chi se ne frega se l’idea è più o meno quella: anzi, per come stiamo messi, è meglio non pretendere che a ogni nuova pubblicazione si faccia la scoperta del secolo. E poi, molti adattamenti, pure quelli con giusto qualche minima variazione, sono sufficientemente originali da meritarsi soltanto lodi.
Il compito della Valerio, dunque, era semplice: non doveva inventarsi chissà che cosa, doveva metterci le robe queer che piacciono a lei, e per il resto bastava che copiasse bene. Mi sarebbe piaciucchiato. Credo. Ehm.
Comunque, voglio vi si imprima bene nel cervello, le possibilità di partorire un giallo dignitoso erano alte, anche perché in effetti la trama contiene tanti ingredienti intriganti. C’è una donna ricca e dal comportamento strano, quindi per noi affascinante, che muore in circostanze “poco chiare” (sento delle Marina Di Guardo vibes…); costei era aperta peggio dei confini della UE, e questo ci induce subito a sospettare di ogni abitante di Scauri; c’è del sesso torbido, con la giovane convivente (sì, quella Mara che ho menzionato in precedenza, eh, eh) della defunta che sembra avere una tresca con un’altra donna; c’è la protagonista, che vive un forte conflitto interiore; e poi ci sono i misteri belli e buoni, come ad esempio il medico legale, amico del marito di Lea, che decide di non eseguire l’autopsia…
Ah-ah, se mi ritrovo in mano questi elementi, zac!, io ho subito idea di come deve andare il romanzo: Lea si accorge che la vecchia non è morta per un “incidente”, inizia a sospettare di Mara, e infine scopre che il colpevole e nient’altri che il proprio marito, il quale ha avvelenato la vecchia con la complicità dell’amico medico. Facile come rubare le caramelle a Buonvino.
Certo, non sarebbe stato chissà che giallo, tuttavia nemmeno una schifezza incomprensibile.
Invece…
Invece ci becchiamo una fantastica scena, in cui Lea esamina il cadavere della vecchia. Penserete che sia il momento in cui il detective si accorge che c’è qualcosa di strano, magari qualcosa che non dovrebbe esserci e invece c’è, o, al contrario, qualcosa che dovrebbe esserci e invece manca. L’indizio cruciale, no? E infatti è proprio ciò che accade ne Il grande Bob. Come detto, Bob muore annegato, cadendo dalla barca durante una battuta di pesca. Precisamente, Bob affoga perché, per tener ferma la barca in mezzo alla corrente, ha gettato una grossa pietra legata a una corda in acqua, senza accorgersi che la corda gli si era avvolta intorno alla caviglia. Questa è la prima versione dei fatti, versione che viene smentita da un piccolo particolare: la corda era avvolta non una, ma due volte intorno alla caviglia di Bob. Decisamente una fatalità troppo perfetta.
D’accordo, vediamo appunto quale stranezza Lea nota sul corpo della vecchia…
Vittoria [ah, ecco come si chiama la vecchia] era stesa sul letto, le braccia lungo i fianchi, vestita dei suoi pantaloni di lino bianco, un paio di espadrillas nere, dalla suola parevano nuove, e una camicia di cotone color carta da zucchero, con le maniche a tre quarti. Era vestita d’estate. Del lino le piaceva la consistenza, di questo mi ricordavo.
D’altronde, i morti non hanno freddo. Non sembrava dormire, e nonostante il trucco, le affiorava sulla pelle del viso e delle mani un colore giallo azzurro, simile a quello del comò, e dello scamiciato sbiadito, leggerissimo, col quale tante volte l’avevo vista. Mara le aveva lasciato uno solo dei due anelli che era solita portare, l’altro stava poggiato sul comodino, al polso aveva i bracciali, mi ero chinata e avevo contato i campanellini. Ho preso il pezzo di conchiglia dalla mia tasca e l’ho passato nella sua. Quando Mara è venuta a chiamarmi, mi ha trovata con le mani sul polso di Vittoria.
Mi dispiace tanto, Mara.
L’avete visto? Eh? No? Davvero? E ci credo che non l’avete visto, non c’è un cazzo di strano da vedere! Lea guarda il cadavere, probabilmente intenta in quella “pippa” di cui parlava la Valerio, e… basta, questo è quanto. Neanche a dirlo, è tutto da rifare, ci vuole un’altra scena in cui possa palesarsi l’indizio chiave. “Neanche a dirlo”, perché ovviamente non c’è nessuna scena del genere in tutto il romanzo: con estrema semplicità, e senza un miserabile straccio di motivo, Lea comincia dal nulla a blaterare che la teoria dell’incidente è pazzesca:
È impossibile sia morta per un incidente nella vasca di casa sua.
Uhm, va bene, sono stata un po’ truffaldina. È vero che Lea non ha un motivo che la induca a pensare una cosa simile, però volevo dire che non ha un motivo concreto, appunto un indizio bello e buono. In effetti la nostra eroina sostiene la sua opinione con un ragionamento deduttivo. E se questo vi mette in allerta, perché sapete benissimo che i ragionamenti deduttivi sono la kriptonite di Chiara Valerio… eh, niente, avete ragione:
Seduta sul bordo [della vasca] ne scrutavo il fondo quasi potesse rivelarmi cos’era successo a Vittoria. Come fa una nuotatrice provetta, una che si tuffa a mare [sic…] d’inverno e d’estate, a morire affogata nella vasca di casa sua?
A metterla in fila, una frase dopo l’altra, la vicenda di Vittoria era questa. Una donna muore nella vasca da bagno, è affogata, il medico legale trova acqua nei polmoni e non indaga ulteriormente nonostante sappia, come tutti, che la donna è un’ottima nuotatrice.
Ah-ehm.
PORCA [CENSURATO], PORCACCIA LA [CENSURATO], [CENSURATO] [CENSURATO], CHE CAZZO DI DIAVOLO DI RAGIONAMENTO È?! UNO PUÒ ANNEGARE NELLA VASCA SOLO SE NON SA NUOTARE?!
Ma ci sono un sacco di casi in cui poveracci affogano nella vasca! Tipicamente, basta avere un principio di infarto, o un ictus, o una fortissima congestione, o chissà quale altra condizione improvvisa e irresistibile, per scivolare fin sotto il pelo dell’acqua e affogare. Anche se si sa nuotare benissimo! E quelli che ho elencato, lo vedete da voi, sono incidenti plausibili. In che modo, poi, saper nuotare dovrebbe essere un vantaggio, quando si affronta la vasca da bagno? Per evitare spiacevolezze basta tenersi dritti con la schiena, anche chi non ha mai visto nemmeno un ruscello in vita sua può riuscirci, no? E se si finisce sotto, chissà, magari perché si è messo un piede in fallo ma NON si è sbattuta la testa, che si dovrebbe fare per salvarsi, nuotare in stile delfino? Rana? Ma che cazzo, basta alzarsi, no? La capacità di alzarsi non è correlata all’abilità nel nuoto, no? No?!
Insomma, per ricapitolare, è ben possibile affogare nella vasca in seguito a un incidente che ci fa perdere i sensi o il controllo delle funzioni motorie, ed è ben possibile evitare di affogare senza avere la minima idea di come si nuota. Quindi… Lea? Ohi, tutto bene? Che, questa è una tua dote naturale o hai seguito un apposito corso di rimbecillimento?
C’è del marcio a Scauri
Ehi, fuck me and fuck you, lettori. Lea pensa che ci sia del marcio a Scauri, perché sì; quindi inizia a indagare per conto suo, e… secondo voi? È tarda, sconclusionata, disordinata e, soprattutto, arrapata. Avete letto bene, è arrapata. Praticamente Lea è la versione maschile di Buonvino. Avete letto bene anche questa volta. D’altronde, vi avevo già messo la pulce nell’orecchio, e che fra il Maestro e la Valerio ci sia qualcosa è un fatto, dimostrato nero su bianco dai ringraziamenti inclusi in C’è un cadavere al Bioparco.
Non preoccupatevi, ci torneremo sull’arrapamento di Lea (perché è quello che vi interessa, sporcaccioni), ma per il momento continuiamo a esaminare la… sigh… indagine che dovrebbe sostenere la trama di Chi dice e chi tace. Allora, la nostra superdetective scopre che la vecchia e quella tipa lì, quella Mara, avevano una relazione. Cioè, lo scopre perché Mara stessa glielo comunica, e la poveraccia è costretta pure a ripetersi:
No, aveva detto Mara, sabato era più allegra del solito, anzi, aveva abbassato la voce, abbiamo bevuto e poi siamo state insieme, non succedeva da tempo, pensavo di non piacerle più.
[Mara] Aveva tirato su col naso e mi aveva fissato rabbiosa.
Ho dormito con Vittoria nello stesso letto ogni notte di tutte le notti degli ultimi vent’anni […].
Ecco, dopo aver messo insieme i suddetti, frammentari, indizi, e averci riflettuto un po’ su, Lea riesce a dedurre il rapporto che intercorreva fra le due donne, come appunto ho anticipato:
La notte mi ero svegliata e avevo ripetuto Va bene. Più volte. […] Non mi toglievo dalla testa la voce di Mara che diceva che avevano fatto l’amore sabato sera […] e la mia voce che ricordava Sono state amanti. Così, per togliere di mezzo almeno me stessa, avevo sussurrato, espirando insieme al fumo Sono state amanti, e a quel punto avevo capito. La comprensione era un peso in mezzo alle gambe, e in uno sforzo di equilibrio non avevo sentito arrivare Luigi.
Lea, non ti senti bene?
[…]
Mi ero avvicinata per abbracciarlo, al calore del suo corpo si aggiungeva il tepore delle coperte dalle quali era uscito.
Sono state amanti, loro due facevano l’amore.
Fantastico. Dopo questo difficilissimo insight, Lea inizia a sospettare che la morte della vecchia possa essere un delitto passionale: infatti, non soltanto la nostra eroina è riuscita a capire che la vecchia se la faceva con Mara, ma pure intuisce che fra Mara e una certa Filomena c’è del tenero. E dunque Lea inizia fare sul serio, interrogando Filomena, ovviamente senza alcuna autorità per farlo…
Distogliendomi, avevo seguito Filomena raggiungere il tavolino accanto allo specchio nel quale Mara si sistemava i capelli, afferrare il bicchiere di grappa, bere un sorso e tornare a sedersi con me. Non riuscivo a essere calma.
Dov’eri domenica mattina?
E tu, Lea, dov’eri?
Io a Ponza, con Luigi, a casa di Alba, l’amica mia.
Hai passato una bella domenica, Le’?
Abbastanza, e tu che hai fatto?
Sono stata in agenzia.
Di domenica?
Sì, non è che lavori solo tu, pure io c’ho da fare.
E chi ha mai pensato che non avessi da fare, eri da sola?
Non faccio abbastanza soldi per pagarmi la segretaria.
Ah, bello quest’interrogatorio stile “specchio riflesso”. Comunque, tralasciando il fatto che è più Lea a subire il terzo grado… ehm… oh, dai, finalmente la trama sembra ingranare!
Ma sì, lettori, Chi dice e chi tace comincia a percorrere una pista, e direi che questo è un bene, perché la Valerio ci aveva detto che la sua opera, quantomeno, ha la struttura di un giallo. E la struttura di un giallo, proprio quella minima, ma minima proprio, è in fin dei conti riducibile a una pista da percorrere, giusto? Ecco, abbiamo infatti un sospetto (Filomena) direi… credibile, sì… abbiamo un movente (avere Mara tutta per sé) direi… credibile, sì… abbiamo un alibi (dice che era in agenzia, da sola) direi… non credibile, eh, eh. Inoltre, nella gustosa scenetta che vi ho proposto, Filomena è evidentemente molto nervosa.
E voi mi dite: vabbè, ma che roba è, è tutto alla luce del sole, non c’è suspense, è un giallo brutto, questo. Sicuro, è brutto, nondimeno è pur sempre un giallo. Cioè, sarebbe pur sempre un giallo. Oh-oh…
Il fatto è che se fossimo in un brutto giallo, dopo l’interrogatorio fiume Lea continuerebbe a indagare su Filomena, farebbe un sopralluogo sul suo posto di lavoro, interrogherebbe i suoi vicini, troverebbe delle prove decenti… cose così. Ma Chi dice e chi tace non è in effetti un giallo brutto, è un qualcosa di cui nessuno vorrebbe riconoscere la paternità, nemmeno quei programmini di intelligenza artificiale che sfornano fumetti nonsense su Shrek, Garfield e John Cena. Perché sono così estrema, domandate? Eh, è che dopo l’interrogatorio fiume… Lea non combina un cazzo di niente!
Filomena offre quell’alibi patetico a Lea (che, ricordo per l’ennesima volta, non è autorizzata a torchiare nessuno) e la nostra eroina fica… se lo fa andar bene alla grande! Ehi, dopotutto la tipa ha detto che quella domenica era impegnata, che cacchio si può fare di più? Se l’ha detto sarà così, no?!
“Un giallo morbido” (A Morbid Detective Novel)
Occhei, capisco. Avendo Lea la stessa laurea del valoroso Guerrieri, probabilmente fare sopralluoghi, verificare alibi, ingegnarsi per portare alla luce nuovi indizi… insomma, lavorare… eeeeh, sono cose fuori dalla sua portata, via!
C’è però un momento della trama in cui nessuna scusa regge più, un momento in cui perfino un Guido Guerrieri in coma cerebrale profondo (ossia Guido Guerrieri come lo conosciamo) capirebbe che è il caso di agire. Tale momento, lettori, si palesa quando Lea si trova, da sola!, in casa della vecchia. Sì, è lì perché la stagionata defunta, nel testamento, aveva chiesto ai suoi amici di ravanare nella sua magione e portarsi via dei ricordini… è quello che è, sono d’accordo con voi.
Comunque, Lea appunto ci va, si ritrova da sola nella camera da letto della vittima, e… e capite bene che una situazione simile, per un detective, è un’incredibile botta di c… fortuna! Dico, la nostra eroina ha la possibilità di ficcanasare fra gli effetti personali della vecchia e della sua amichetta Mara, cioè… eh?!
Appunto, come avete immaginato, Lea decide dunque di… ma… ma si mette a riordinare i calzini?! Incredibile, eppure…
Avevo aperto un cassetto di calzini, li avevo guardati, spaiati e in disordine. Mi ero seduta e avevo cominciato a sistemarli. Blu con blu, grigio con grigio, righe con righe, bianco con bianco.
Uff, non so che dire, davvero, credo che Chi dice e chi tace sia da prendere molto, molto sul serio, in materia di protagonisti idioti. Insomma, perché Lea si improvvisa detective, se neppure riesce ad approfittare dell’enorme culo che la Valerio ha deciso di attribuirle? Il deus ex machina che abbiamo visto è da manuale, ossia imbarazzantissimo, e sta lì proprio solo per imbarazzare, di sfruttarlo non se ne parla. Siamo quasi a livelli Manni, qui.
Occhei, per l’ennesima volta è un po’ colpa mia. Essere invitata a casa della vecchia e poter così indagare sul campo non è il vero colpo di fortuna. QUESTO è il vero colpo di fortuna:
C’erano pure mutande e reggiseni. Guardavo i pezzi di stoffa incredula. Furtiva, mi ero infilata in tasca un paio di mutande color carne, di pizzo, molto trasparenti. […] C’erano moltissimi calzini. Non distinguevo più bene i neri e i blu e questo mi aveva rallentato tanto che Mara si era decisa a raggiungermi.
AH, AH, AH, AH, AH, scherzetto, lettori! Ma vi pare? Ovvio che la fortuna sta nel trovare i mutandoni sporchi della vecchia! Ve l’avevo detto che Lea è una maniaca sessuale. E poi, ora che ci penso, i ricordini se li è presi per davvero, LOL! Quindi, in questo passaggio fondamentale per la struttura di un giallo, abbiamo la nostra eroina che schizza sangue dal naso per la felicità, dopo aver grattato l’indumento intimo di un morto, e… e niente, arriva Mara e addio a ogni speranza di trovare qualcosa di utile. Ma, ehi!, almeno l’umore di Lea va alla grande.
La terminazza
Quello che va meno alla grande è il vostro di umore, cari lettori. Lo so, lo so. Vorrei anche finirla qui, lo confesso, vedervi soffrire mi fa star male, non crediate. Però, c’è ancora tanto da dire, e siccome Chi dice e chi tace ha rischiato di vincere lo Strega, ve lo rammento… vi beccate ancora un botto di analisi, punto.
Allora, dobbiamo proprio continuare con i deus ex machina. Perché sì, quello di prima era talmente un deus ex machina che alla fine non lo era, era solo un intermezzo erotico. Però i veri deus ex machina ci sono. In particolare, ve l’assicuro, il romanzo finisce, e ciò vuol dire che il mistero si risolve. Certamente, con una serie di potentissimi deus ex machina, e come sennò? Sul serio, come? La Valerio ha solo perso tempo con gli slippini e i reggipoppe, come cacchio potrebbe sbrogliare, diversamente, la matassa?!
Uno dei suddetti deus ex machina è il seguente: a un certo punto, Lea scopre che la vecchia, prima di trasferirsi a Scauri, viveva a Roma ed era sposata con un avvocato. Eh, come lo scopre? LOL, prendete fiato… via: Lea ha come cliente un ragazzino che ha fatto a botte con un coetaneo venuto da Roma, e il difensore di quest’altro pischello, fra tutti gli avvocati della capitale, è proprio l’ex marito della vecchia, tale avvocato Pontecorvo, il quale, PER NESSUNA CAZZO DI RAGIONE!, decide di diventare amico di Lea e di rivelarle tutti i dettagli della vita della vecchia, CURRICULUM COMPRESO! Uff, è allucinante, mi rendo conto, ma… eh:
[Pontecorvo] Per quanto possa sembrarle incredibile, Vittoria e io ci siamo amati molto.
[Lea] Non immaginavo Vittoria fosse sposata.
Non avendomi mai chiesto il divorzio, credo non intendesse farlo.
[…]
Da quanto tempo non la vedeva?
Più di dieci anni.
E vi eravate sentiti di recente?
Non negli ultimi cinque anni.
[…]
Volevo dire, avvocato Pontecorvo, che l’intenzione di Vittoria era chiara, voleva rimanere qua, era integrata nella comunità, molte persone si affidavano a lei e non solo per il lavoro in farmacia.
Non era farmacista, avvocato Russo, Vittoria è stata una delle prime laureate con lode in Medicina della Sapienza di Roma, si è specializzata in medicina d’urgenza, poi in oncologia, interessandosi specificamente alle radioterapie, è stata negli Stati Uniti quasi tre anni, no, non era una farmacista, con tutto il rispetto che ho per la professione.
Anvedi, io ancora mi domando perché quei cazzoni dei Carabinieri si ostinano ad andare in giro a interrogare i vicini, a contare i passi, a tirare fuori il Luminol… cioè, se stessero in caserma a guardare il soffitto, tutti gli indizi e le prove andrebbero da loro. Invece no, vanno sul campo: così gli indizi e le prove si presentano in caserma, ma non c’è nessuno, e quindi, ciccia!, i casi rimangono irrisolti.
Oh, mamma!, andiamo avanti, va’. Altra chicca che toglie le castagne dal fuoco: dopo aver letto il testamento, Lea apprende che la vecchia se la faceva pure con una certa Rebecca. Siccome avevamo già una sospetta molto sospetta, quella Filomena, mi pare giusto incasinare ulteriormente le cose aggiungendo un’altra tizia misteriosa. Ecco, Lea vorrebbe appunto saperne di più riguardo a Rebecca. Accidenti, il testamento non dice nulla, solo il nome di battesimo, mi sa che stavolta sono cazzi. Ma no, niente paura, c’è ancora l’irreprensibile avvocato Pontecorvo, il quale, a questo punto, essendo veramente un tuttofare per i vari deus ex machina, ho idea che in realtà sia una specie di angelo. Meh, i guai in effetti non sono finiti, perché all’improvviso Pontecorvo si sente sfruttato dalla nostra autrice, e si rifiuta di fornire informazioni su Rebecca. Come si esce da una simile impasse? Oh, è molto semplice: Pontecorvo dà un’informazione necessaria mentre afferma categoricamente di non voler dare informazioni necessarie…
Chi è Rebecca?
Una donna che, me ne accorgo adesso, ha una qualche somiglianza con lei. […]
[…]
Così, lei dice che io e Rebecca ci somigliamo?
Per quanto incredibile, lei e Rebecca Lanza vi somigliate.
E chi è Rebecca Lanza?
Avvocato, se Vittoria avesse voluto che lei o altri, in questo buco dove si era ritirata insieme alla sua bambola rotta col vestito strappato [si riferisce a Mara], conosceste Rebecca, l’avreste incontrata, invece non è successo, e dunque, non la introdurrò io. Arrivederla, non è stato sgradevole parlare con lei, ha i miei numeri di telefono.
Bene, ecco fatto. Anche se I Simpson ci avevano già pensato (con quel ciccione che rivela il conto offshore di Krusty), riconosco che ci vogliono gli attributi per servirsi di un espediente del genere. In un giallo. Che forse è la parodia di un giallo. Ma che forse, in fondo, non lo è.
Comunque, il cringissimo siparietto almeno consente a Lea di… di non fare niente, mi sembra ovvio. Scoprire che Rebecca fa Lanza di cognome non servirà a un tubo! Ma porc… perché quella scena, allora?! E tenete in conto, lettori, che precedentemente Lea ha pure tentato di risalire all’identità di Rebecca cercando tutte le omonime sull’elenco telefonico, come fosse una terminator difettosa:
Avevo afferrato il doppio tomo di Roma e provincia, mi ero seduta, avevo tirato fuori il taccuino e la stilografica, regalo dei miei per la laurea, e cominciato a cercare il nome Rebecca. […] Solo che dopo venti minuti non avevo scorso che dieci pagine, e nonostante fossi veloce con liste, tabelle di numeri, nomi e targhe automobilistiche, avevo capito che era una strada, per quanto sicura, troppo lunga.
Meno male, cazzo!, che la nostra eroina si accorge che cercare su un elenco telefonico, alfabeticamente ordinato PER COGNOMI, il nome “Rebecca” non è una buona idea… DOPO VENTI MINUTI!
Ma ehi, Pontecacchio poi le svela il fatidico cognome, magari non è il caso di riprendere la ricerca sull’elenco ordinato PER COGNOMI? No, appunto, Lea all’improvviso perde ogni interesse per Rebecca, e tutta questa side story, che incredibilmente è ancora un “non deus ex machina”, finisce dove dovrebbe finire anche Chi dice e chi tace. E speriamo che poi qualcuno passi a tirare la catena.
Eyes Wide Shit
Ebbene, siccome abbiamo toppato con questa menata di Rebecca, è ovvio che c’è bisogno di trovare il successivo, vero, anello nella catena dei deus ex machina. Non potendo certo cancellarlo dalla vostra mente, vi ricordate di quando Lea ha sgraffignato le mutandine sgommate: sì, ehm, diciamo che ha fatto spesona, e oltre agli slip sexy si è portata via anche dei pantaloni. Non, non chiedetemi il motivo, per carità! Il punto è che, nella tasca di quelli, trova un biglietto che riporta l’indirizzo di uno studio medico a Roma. Che bello, la “fonte ritrovata”, il più classico degli espedienti dell’autore noob! Uff… comunque… la nostra protagonista arriva allo studio medico e lì… ta-daaah… trova:
REBECCA!
Oh, cielo!, no, non ce la faccio più! E non solo Lea trova quell’inutile faccia di merda che aveva totalmente snobbato, prima: la misteriosa Rebecca che fa? Ma fa l’altro più classico degli espedienti dell’autore noob: lo spiegone!
Eh sì, presa da un’irrefrenabile impulso, l’altrimenti inutile Rebecca scalpita dalla voglia di attaccare lo spiegone definitivo, e che spiegone, lettori!
Scopriamo infatti che la vecchia, durante la sua vita matrimoniale a Roma, organizzava dei festini porno in stile Eyes wide shut (che forse, visto il contesto di Chi dice e chi tace, potremmo chiamare “Eyes wide shit”); scopriamo che si faceva Mara da quando quest’ultima era minorenne (perfettamente legale, sappiatelo, però… ehm…); scopriamo che amava produrre veleni; scopriamo che aveva un tumore al pancreas incurabile. Scopriamo, se ancora non vi fosse evidente, che la vecchia si è suicidata… usando un veleno… per non morire di cancro.
Nun ce posso crede, mo’ che sò tutti ’sti suicidi?! Cioè questa roba di quasi trecento pagine è un altro Buonvino tra amore e morte (i due sono amici… ve lo ricordo…)! E anche qui, proprio come in Buonvino tra amore e morte, il suicidio non ha un cazzo di senso!
Insomma, penso che anche voi, lettori, vi siate posti le mie stesse domande. Ad esempio, perché la vecchia non ha voluto scrivere una lettera d’addio prima di suicidarsi? Occhei, Rebecca ci dice che non voleva far sapere a Mara del tumore… ma si sarebbe comunque venuto a sapere che era malata, se il medico legale avesse eseguito l’autopsia come previsto!
Ancora: forse la vecchia sapeva già che il medico legale non avrebbe fatto l’autopsia, o che, se l’avesse fatta, avrebbe taciuto? Se sì… come diavolo poteva saperlo?
E poi… come è possibile che la vecchia avesse un cancro così avanzato, e che nessuno si sia accorto di niente? A parte che i tumori del pancreas sono tra i peggiori, anche proprio per i sintomi che danno, quando giunti all’ultimo stadio, ma poi… toh!, guarda un po’, anche ne Il grande Bob alla fine si scopre che Bob si è suicidato a causa di un cancro (il suo è allo stomaco)! Solo che Simenon ha la decenza di lasciare degli indizi. Leggiamo infatti di Bob che, nei tre anni precedenti ai fatti narrati, assumeva molto spesso bicarbonato dopo i pasti per placare la pirosi, e inoltre scopriamo che non tollerava più il vino bianco.
La vecchia, invece? Oh, che volete che vi dica, lei… lei salutava sempre. Sul serio, lettori: la Valerio, tra le altre, ha la bella idea di raccontarci che la suicida aveva l’assidua abitudine di comprare pasticcini (dunque prodotti grassi e molto zuccherati) ogni settimana…
Se non fossi andata a Ponza, probabilmente avrei incontrato Vittoria come tutti i sabato mattina a comprare le paste da Vezza o Morelli.
Vabbuò, e che ce voi fà?
Queer novel = romanzo stramboide
Io dico: proprio niente. Pertanto, suggerisco di lasciare perdere l’aspetto giallo del romanzo. No, non nel senso che qualcuno ci ha fatto sopra… ehm… eh. Lasciamolo perdere, tuttavia l’analisi continua. Lo so, mi dispiace, sono veramente triste, ma credetemi è necessario. E sarà gustoso, ve lo prometto.
Dunque, se tornate a quello stralcio dell’intervista, la Valerio aveva sentenziato che l’indagine serviva solo a rendere più interessante “l’avventura interiore” di Lea, in effetti il tema principale dell’opera. È perciò possibile avere un po’ di umana comprensione per l’indubbio casino che l’autrice ha fatto con il mistero e con l’indagine. Beh, insomma, a patto che quest’avventura interiore si riveli almeno decente.
“Avventura”: vi invito a riflettere sulla parola. Implica l’affrontare difficoltà e sfide, giusto? Avventura è anche qualcosa di stupidino, come perdersi in una città che non si conosce, dove nessuno parla la tua lingua, senza poter contare su una cartina o sul gps. Ma non è un’avventura farsi un soggiorno alla spa, dove tutto va esattamente come previsto. Non dubito che possiamo tutti quanti concordare su questo.
Ora, grossomodo, Chi dice e chi tace dovrebbe narrare l’avventura interiore di una donna che si scopre omosessuale (o bisessuale, boh): ottimo, ci aspettiamo, non so, che tratti la graduale esplorazione delle nuove pulsioni da parte della protagonista, la sua reticenza a staccarsi dal tradizionale e stereotipico ruolo di moglie, il senso di colpa verso il marito e le figlie, l’inquietudine religiosa e morale, cose del genere. O anche aspetti più “positivi”, come la diversa eccitazione provata nei confronti del corpo femminile, o la voglia di confessare il proprio “cambiamento” a un’amica o a un amico, per confrontarsi e capirsi meglio.
E… e ovviamente ci becchiamo Lea che a un certo punto si ferma, capisce di essere lella, e poi torna alla vita di tutti i giorni.
Ah, pensate che sia bugiarda? Allora considerate i dialoghi fra Lea e il prete di Scauri, padre Michele. Inutile che ci giriamo intorno, clero e “frociaggine”, come ha detto qualcuno, sono acerrimi nemici (a parole, almeno). Perciò, se in un romanzo come questo, a un certo punto compare un prete, anche uno magari molto aperto di mente, è praticamente d’obbligo che presto o tardi fra lui e la protagonista queer si crei o uno scontro, o un confronto costruttivo. Ma va’, lungo tutto Chi dice e chi tace, Lea e padre Michele non fanno altro che sprecare il loro (e il nostro) tempo discorrendo su cazzatelle pallosissime, peggio dei pensionati all’ospizio:
Sei andata al cimitero, Lea?
Sapete che non mi piacciono i cimiteri, e che i morti sono morti e i vivi sono vivi.
Io ci sono andato, ho piantato le erbe officinali, quelle che sono riuscito a trovare da Patella.
Come sta Patella?, non lo vedo da un sacco di tempo.
Acciaccato, Lea, ma bene, insomma, sulla tomba ho messo due chiapparielli, anche se il cappero è difficile, il cappero decide lui, ma sostiene Patella che sopra al cimitero i capperi prendono.
Padre Miche’, non mi pare ci stanno capperi agli alberi pizzuti.
C’erano, ma stavano sui colombari vecchi.
Quelli crollati.
Sì, poi ci ho messo il rosmarino, la salvia, la lavanda che sta bene col rosmarino, il timo, sia quello normale che quello al limone, la maggiorana, e i peperoncini forti, che altro ci può stare?
Non lo so, il prezzemolo e il basilico sono stagionali, forse l’erba limoncina.
Eh-eh, il cappero. Si sa, il cappero commuove. Che cacchio l’hai inserito a fare ’sto prete?! Vabbè che avrei dovuto aspettarmelo, il romanzo è italiano, la trama è italiana, l’autrice è italiana… che, te voi mette de traverso ar papa, mo’?
Quindi, il conflitto religioso/istituzionale ve lo potete scordare. Ma almeno c’è quello coniugale? Dico, se cambia qualcosa nella nostra sfera sessuale e ne intacca l’equilibrio preesistente, chi ne fa le spese da subito è la persona con cui abbiamo già una relazione intima, no? Bastano la dispareunia o l’eiaculazione precoce a mandare in crisi le relazioni, eh!
Ah, ah… no. Lea confessa con calma e disinvoltura a suo marito di essere attratta dalla vecchia, e il gelatinoso eunuco ascolta la buona novella con altrettanta calma e disinvoltura. Dopodiché, torna a dormire, però “sbuffando”:
E se le fossi piaciuta veramente?
Ma mo’ che è questa ossessione? C’è qualcosa che non capisco, e comunque non possiamo più saperlo, Lea, amore mio, Vittoria è morta.
E se invece fosse piaciuta lei a me?
Ti piaceva Vittoria?
Non lo so.
E non puoi più saperlo, Lea, amore mio, Vittoria è morta.
Ma io devo saperlo Luigi, sono viva.
Luigi era tornato a dormire sbuffando […].
Questa è quella che Chiara Valerio chiama “una situazione avventurosa”. Anche se lei normalmente preferisce usare il termine equivalente “pippa”.
La pesca baffetta
Mettiamo da parte questa storia degli scontri, dei confronti e compagnia, tanto dopo dei brani simili non mi vengono davvero commenti sensati. C’è però qualcosa che mi preme mettere in luce, lettori. Scoprire una nuova sfumatura della propria sessualità, non è una passeggiata per la nostra autoconsapevolezza, per l’idea che abbiamo di noi stessi e del nostro ruolo nella società. Oltre a una continua e aperta persecuzione, le persone non eterosessuali devono anche affrontare la loro innata, e umanissima, esigenza di incontrare una diffusa (e sincera, spontanea!) approvazione sociale, di non sentirsi “ontologicamente” isolati, perché portatori di caratteristiche non maggioritarie, pure in un contesto in effetti inclusivo e amichevole. Scoprirsi “diversi”, scoprire di appartenere a una “comunità”, ma non alla più ampia comunità, è a prescindere un evento stressante e delicato per l’individuo: c’è chi reagisce “bene” e chi reagisce “male”, però una reazione c’è sempre, non è come bere un bicchier d’acqua.
Se si vuole scrivere della “diversità”, non dico che si debba partire con l’idea di dover comporre un’opera solenne e serissima, tuttavia non è opportuno né banalizzare né ignorare l’impatto psicologico e sociologico che la scoperta di sé ha sull’individuo.
Almeno su questo… insomma… Chiara Valerio stessa è queer, saprà che cosa è bene fare, vero? Oh, lettori, che vergogna, questo è un terribile bias cognitivo, è qualcosa che logicamente non sta in piedi. Ma vi pare che se uno è queer, allora automaticamente sa come si scrive un’opera che tratta di temi queer?
Per l’appunto, come già vi ho anticipato, la nostra Lea se la passa benone. Ehi, adesso è un po’ lesbica: wow, alla grande! Sono più preoccupata io quando mi esce un brufoletto! Guardate, Lea è talmente a suo agio che si mette subito a fare delle battutine sulla sua passione per la ciccia baffa:
Ai matrimoni degli amici c’era sempre qualcuno che offriva allo sposo un piatto con mezza pesca guarnita di un ciuffo di prezzemolo, e alla sposa un piatto con una banana e due albicocche o ricci di castagna, secondo la stagione. Preferivo comunque le pesche.
Io… boh. Non so, lettori queer, a voi piace questa roba? Vi rappresenta? Vi intrattiene? Vi fa ridere, ma vi fa anche riflettere?
“Personaggi roton(T)i”
Sapete che c’è? C’è che in fondo non è affatto strano che la Valerio abbia totalmente ignorato Lea, a questo punto riassumibile (voglio che ci riflettiate su) come un’erotomane con un q.i. a due cifre. Sì, perché la vera protagonista è un’altra: la vecchia. E intendiamoci, è la protagonista sì, ma esattamente nel modo in cui un santo lo è di un’agiografia.
Continuamente leggiamo di elogi incredibili rivolti a questa vecchiaccia del cacchio, la quale è di volta in volta ammirata per… uhm… per qualsiasi cosa la riguardi? Ogni sua abitudine, anche la più infima, viene trasfigurata dalla nostra creepy Lea, che in sostanza finisce per raccontarci la storia di come Scauri è stata civilizzata. Ecco qualche morigerato esempio:
Vittoria conosceva bene le erbe, leggeva di giardini e camminava molto, poteva arrivare a piedi fino al Redentore, dove stava la statua del Cristo. Anche leggere di giardini, a sentire la cartolibreria dove Vittoria ordinava i manuali, era una cosa molto particolare. Particolare come a dire strana.
A Vittoria piaceva la birra durante il giorno, la sera l’ho vista bere vino […]. Prima [dell’arrivo della vecchia a Scauri] […], l’alcol riguardava le donne solo quando era etilico, o puro, e serviva per pulire i vetri […].
Anche la cassis era un prodotto che, prima di Vittoria, nessuno aveva mai sentito a Scauri e che grazie, o a causa, di Vittoria [gli scauresi] avevano cominciato ad acquistare […].
Poi, senza aggiungere altro si era tuffata per riemergere, ogni due o tre secondi, nello stile a delfino che, quando era arrivata a Scauri, nessuno aveva mai né visto né praticato.
Padre Pio scansati proprio. Che poi, cosa dovremmo dedurre, eh? Che a Scauri non sono mai esistite né una televisione né una piscina né un’associazione di nuoto prima degli anni Settanta, il decennio in cui la vecchia miracolosa si trasferisce nella frazione? No, dico, può essere, però lo stile delfino è stato introdotto alle Olimpiadi già nell’edizione del 1956, davvero nessuno scaurese l’aveva mai, mai, mai visto prima?
D’accordo, so che volete urgentemente farmi un’obiezione: l’ho detto, è Lea la cantrice ufficiale della vecchia, e può ben darsi che si comporti da narratore inattendibile. È la solita storia, tuttavia stavolta c’è un minimo in più di fondamento, essendo Lea innamorata. Anzi, voi mi insegnate che, proprio grazie a questo artificio narrativo, la Valerio ha effettivamente tratteggiato la personalità e i turbamenti interiori di Lea. Eh, eh, eh.
Mi spiace, lettori, è evidente che la nostra autrice volesse invece esaltare la vecchia, infatti sono almeno (almeno!) affascinati da lei praticamente tutti i personaggi di Chi dice e chi tace. Tutti, vi dico! C’è Mara, che non ama davvero Filomena; c’è Pontecorvo, che ancora si diletta al pensiero di essere stato sposato con la vecchia; c’è Rebecca, l’ennesima lesbica innamorata. Addirittura c’è una ventenne incinta…
Sonia [questo il suo nome] avrebbe poi confessato che, mentre il tono di Vittoria la agitava, la sua presenza la confortava, e che aveva pure pensato che Vittoria fosse mezza sexy.
Almeno il prete, padre Maronno, lì… nah, pure lui è un ammiratore segretamente ingrifatino:
[…] la religione mi dice che esiste la vita eterna e la resurrezione dei corpi, ma io questi corpi li so immobili e confusi nella luce di Dio, o forse immobili no, ondeggianti, ma i passi di Vittoria, la sua camminata, quel modo di ridere, spalancare gli occhi, di voltarsi stupita, di tenere la testa di tre quarti, di fissarsi su qualcosa e poi sbuffare appena, sono cose di questa vita e nessun’altra, di questo mondo e nessun altro, e di quei suoi passi avrò sempre nostalgia.
Momento, momento, momento. Un prete cattolico che si sollazza pensando a un’ebrea (già…) omo/bi/pansessuale?! Oh, all’improvviso il romanzo mi sembra molto interessante! Peccato per quel solito dettaglio: è un romanzo italiano! E dunque il prete può essere solo una specie di Don Babbeo, bonaccione, simpaticone, degno di fiducia e, dopotutto, puro. Volevate un Frollo, volevate un Don Fermín? Fanculo, il debole di padre Michele per la vecchia esiste, è documentato, ma è anche esclusivamente platonico, e non verrà in alcun modo approfondito.
Se però gli amori proibiti e simili vi intrigano troppo, e quest’ultima rivelazione è stata per voi una mazzata, sappiate che avete ancora una speranza. Vi ricordate del medico legale? Ecco, ovviamente anche lui è innamorato della vecchia, e, pensate un po’, questo gioca a favore della nostra autrice, che trova la giustificazione perfetta per quella colossale stronzata dell’autopsia mai eseguita. Ebbene, il tipo confessa a Lea che si è rifiutato di fare il suo lavoro perché non osava “rovinare” la statuaria salma…
Scusa, Tomma’, ma quando hai fatto l’autopsia non te ne sei accorto?
I carabinieri mi avevano chiesto di verificare se fosse affogata o no, e io, ti giuro mi sento un ciarlatano, ho verificato solo se ci fosse acqua nei polmoni […], mo’ mi sento un cretino.
Uno può non essere un cretino eppure comportarsi da cretino, e poi?
E poi, non volevo rovinare Vittoria.
In che senso? [LOL, LEA NUVOLONE!]
[…]
Vittoria mi era sempre piaciuta, da quando ero ragazzo.
In che senso? []
Concordo pienamente con voi, a questo punto sarebbe stato meglio che la Valerio non avesse neanche provato a dare una spiegazione. E no, il fatto che il medico legale non sia in effetti un necrofilo è un punto a sfavore del romanzo, non mi toglierete dalla testa quest’impressione.
Spruzzi bianchi sul petto
Vabbè, non c’è più molto da aggiungere, la vecchia entra con prepotenza nel club degli stronzetti fighetti insopportabili della letteratura italiana contemporanea, accanto a mostri (sacri?) come Giulio Lisi, Giovanni Buonvino, e i tizi di Chi dà luce rischia il buio, che non mi ricordo come si chiamano. Però, però, però… eh, sì… non è tutto rose e fiori. C’è qualcuno che non crede, nel mondo di Chi dice e chi tace. È proprio lei, la più volte menzionata, inutile ex-sospettata… Filomena. Tranquilli, comunque, la nostra autrice si premura di impedire al personaggio di arrecare la minima scalfittura all’autostima della fu vecchiaccia: in pratica, Filomena è lo straw man preso di peso dagli incubi di Carofiglio, un fantoccio che esiste soltanto per essere denigrato e ricoperto delle peggiori schifezze…
[…] avevo risposto frettolosa per rivolgermi a Filomena, che faceva finta di non conoscermi, o così mi pareva.
[…] [E] aveva riso, ma non sguaiata come Filomena, cristallina.
L’idea di Filomena e Mara nello stesso letto mi straniva. Mara tondeggiante, Filomena secca tanto da sembrare la signora con la falce grazie alla quale campava. Mara sempre mezza nuda, Filomena sempre troppo vestita. Anche d’estate. Quando nemmeno la salsedine riusciva a coprire l’odore stantio che le stava intorno […].
[…] Filomena era rimasta seduta, aveva afferrato il pacchetto delle sigarette che avevo lasciato sul tavolo e se n’era accesa una. […] Filomena era arrivata col pacchetto di sigarette e me ne aveva offerta una, come fossero sue.
In casa di Filomena andavano in giro come gli straccioni.
Tutto regolare, dunque, anche la “voce fuori dal coro” che viene mazzuolata per bene fa parte dell’ormai classico topos dello “Steven Seagal letterario”.
Giusto, giusto, se torniamo per un attimo a Simenon, scopriamo che pure Bob è amatissimo nella sua cerchia di amici, non ci sono ombre. Vero, però badate, è amato in maniera molto diversa rispetto a come è amata la vecchia. Simenon, infatti, senza mezzi termini definisce Bob un “clown”. In pratica, Bob è amato come si ama quel tipo della comitiva che racconta barzellette e che fa sempre ridere il gruppo, e per il gruppo è più che altro un accessorio. Bob è un passatempo, nulla di più. È (anche) questo a fare di lui un personaggio tragico, a cui possiamo “affezionarci”, noi sì per davvero.
La vecchia, invece? L’abbiamo visto, tiene tutti in pugno, a parte quella minchiona di Filomena. E nemmeno deve fare qualcosa per soggiogare le deboli menti degli scauresi, è sufficiente il suo divino carisma. Capite che qualcosa non va, in un personaggio del genere. È mai possibile provare qualcosa, che non sia l’irresistibile voglia di prendere a calci il suo culo?
Ora, so molto bene che gli autori, proprio loro in carne ed ossa, vanno maneggiati con cautela. L’ho detto all’inizio, lo ribadisco. E voglio attenermi a questo principio, su Chiara Valerio, sulla persona, io non ho nulla da dire, soprattutto se si tratta di osservazioni potenzialmente sgradevoli. Nondimeno, a questo punto, sento di non potermi esimere dal farvi notare che il personaggio della vecchia ha molte cose in comune con la sua autrice: entrambe sono queer, entrambe convivono con una donna, entrambe hanno vissuto a Scauri… entrambe amano il riso basmati…
[…] Vittoria comprava lì anche i saponi e un riso sottile, basmati, profumato anche quello.
Improvvisamente penso che non c’è nessuna differenza – e mi pare chiaro che non debba esserci – tra l’ossessione per le rape rosse o il riso basmati […] e quella delle letture estive […]. (articolazzo riempitivo di Domani, in cui credo che Chiara Valerio voglia parlare di libri)
A quanto pare, poi, la Valerio, da bambina, si è presa cura di un pavone chiamato Patrick, e adesso sembra che abbia come animale domestico un gatto nero con una macchia bianca sul petto. Ecco, indovinate un po’ che animali ha la vecchia nel suo giardino? Ma certo…
Da quando ci stava Vittoria, era sempre aperta, si entrava dal giardino e già nel patio si respirava un’aria allegra […]. C’era anche un pavone, Patrick.
Nel patio, un gatto nero con uno spruzzo bianco in petto grattava le assi.
Lo “spruzzo bianco in petto”… mamma mia.
Comunque, tutto questo ambaradan per dire che… ? Che indubbiamente ci troviamo davanti all’ennesimo caso di egoxploitation. Insomma, è davvero difficile argomentare in favore dell’idea che la nostra autrice scriva per raccontare una storia: scrive (magari inconsapevolmente, senza alcuna “malizia” eh!) per dar forma ad alcune fantasie personali, ad uso e consumo privato, per così dire. Intendiamoci, non sto dicendo che Chiara Valerio è una malata di mente o che è una persona deprecabile: ma no, tutti dobbiamo ammettere di avere fantasie più o meno simili, e dar loro forma, attraverso la scrittura o altri mezzi, non è un qualcosa per cui storcere il naso. Il punto è che il solo mettere nero su bianco tali fantasie non ci renderebbe mai degli autori con la “A” maiuscola: e questo, che vale per noi, vale anche per Chiara Valerio.
Che piaccia o no, la bella scrittura è un’arte, e come tutte le arti va imparata, magari andando “a bottega”. Perché, vero, c’è molta libertà nella scrittura, e la personalità dell’artista può trovare espressione forse più che in altre discipline, ma… ci sono delle regole, delle tecniche, delle costrizioni. C’è un intero apparato di “skills”, come si direbbe oggi, che devono essere padroneggiate dallo scrittore, se davvero intende essere considerato tale. Se davvero vuole ambire a comporre una grande (o anche piccola) opera, un’opera d’arte. Altrimenti, se, nella smania di rendere le proprie fantasie dei golem infusi di vita propria, si perdono di vista sia le buone norme, sia il buon senso, il rischio è di finire candidati a un premio letterario italiano.
Sentirsi vecchie a vent’anni
E poiché, appunto, Chi dice e chi tace è stato finalista allo Strega 2024, non stupitevi se adesso vi dico che il romanzo è infarcito non solo di scenette egomaniacali, ma anche di mostruosità del tutto nonsense, episodi in cui i personaggi fanno cose assolutamente incomprensibili. Beccatevi un po’ questo stralcio…
E sarebbe morta pure sua [di Pietro, un pescatore] nuora, o forse sarebbe morto il nipote, se Vittoria non si fosse trovata a passare di là per puro caso. In paese se n’era parlato per giorni, e il fatto, per come lo ricordo, era andato così.
Lorenzo, il primo figlio di Pietro […] stava a casa con la moglie, poteva essere il 1982 o il 1983, di maggio, e quando Vittoria aveva suonato il campanello, aveva tardato ad aprire e si era scusato, perché Sonia, la moglie [incinta], era al bagno, probabilmente la sera prima avevano mangiato pesante e aveva la pancia in subbuglio.
Vittoria aveva chiesto di vedere Sonia che, seduta sulla tazza, con la gonna calata intorno alle caviglie sembrava più giovane dei suoi vent’anni. Sonia si era scusata con Vittoria per la situazione, ma con una voce talmente flebile che Vittoria si era sfilata l’orologio dal polso e dopo qualche minuto aveva detto, sbrigativa, autoritaria forse, che bisognava correre in ospedale. […]
L’intervento di Vittoria era stato provvidenziale perché c’era sì una questione riguardante le feci, ma non quelle della mamma. Il bambino aveva fatto il meconio e, sano sano come poi era nato, si stava avvelenando nella sua placenta.
Di nuovo, qualcosa di simile è presente ne Il grande Bob: il protagonista, che è medico, è chiamato da Bob ad alleviare le sofferenze della di lui compagna Lulu, che sta avendo un aborto spontaneo. Ne Il grande Bob, dunque, c’è un marito che si preoccupa nel vedere la moglie incinta star male, c’è un medico che viene interpellato, c’è una donna che sembra quasi un cadavere, con “le labbra bianche e il viso molle di sudore”, che si lascia visitare consapevole di trovarsi davanti a un professionista. Tutto fila, non vi pare?
Occhei, concentriamoci sulla versione della Valerio. Innanzitutto, la vecchia non arriva a casa di Lorenzo e Sonia perché è stato sollecitato il suo aiuto, ci arriva perché… boh. E questo già è strano. Poi c’è la reazione di Lorenzo e Sonia. Posso dire con assoluta certezza che, se ci trovassimo piegati in due, seduti sul gabinetto, nessuno di noi si sognerebbe di invitare dentro al cesso una tizia che ha fatto un’improvvisata. E se poi la tizia in questione si togliesse l’orologio e pretendesse di ficcarci su per uno dei nostri orifizi la sua mano, credo che la situazione precipiterebbe all’istante. Già, perché vi ricordo che nessuno a Scauri sa che Vittoria è un medico, si pensa invece che sia solo una farmacista. E per quanto quella dei farmacisti sia una cast… ehm, una categoria rispettata, nessuna donna assennata concederebbe alla farmacista del quartiere di infilare la sua zozza mano su per il canale vaginale. Mentre sta cagando. O sbaglio?
Infine, il dettaglio che rende ancora più assurda la scena: Sonia, sofferente e con un piede nella fossa, appare “più giovane dei suoi vent’anni”. A parte che, cioè, chi se fotte?, ma poi… ma che cazzo stai a dì?! Come fa una persona a sembrare più giovane proprio quando ha il volto sfigurato da un’espressione di dolore? È il contrario, si appare più giovani quando si ha il volto disteso e rilassato, quando si ha un colorito roseo! E poi… in che senso “più giovane dei suoi vent’anni”? Perché, a vent’anni è praticamente roba da RSA? Cioè, se la vecchia va in brodo di giuggiole perché la tipa ventenne sembra più giovane, che niente niente le piacciono… le minorenni?
Oh, ma che cazzo!, certo che le piacciono, la nostra autrice si è premurata di metterlo agli atti: Mara era ancora una lattante, ricordate?
Non è certo finita qui, purtroppo per voi. Altra scenetta allucinante, la quale strizza l’occhio (LOL, no pun intended) al miglior Buonvino d’annata (ancora no pun intended), quello capace, in una foto sfocata, di individuare una cicatrice sotto l’orecchio. E beccatevi ’sto remake:
Mi ero alzata presto con l’idea di passare in ufficio prima del funerale […]. Avevo appena infilato la chiave nel portone quando dal sedile posteriore, dopo aver aperto la portiera con un gesto asciutto, si era affacciato un uomo [Pontecorvo] elegante e anziano, alto, dinoccolato, con gli occhi di un verde slavato, il dorso delle mani macchiato dal tempo e l’interno dell’indice e del medio della mano destra scuri di nicotina.
Ma… ma… ma Lea, l’inebetita Lea, come cacchio fa ad accorgersi da lontano (lo sottolineo) che Pontecorvo ha “l’interno dell’indice e del medio della mano destra scuri di nicotina” (oltre alle altre caratteristiche)? Cioè, non è capace di cercare un cognome sull’elenco telefonico, non sa porre delle semplici domande, non sa fare delle deduzioni elementari… come è possibile che noti un dettaglio di norma nascosto, e comunque di per sé molto lieve? Oltretutto, dopo aver rubato la biancheria intima, sono certa che la nostra eroina ha perso diverse diottrie…
Ultimo brano senza senso, e ve lo butto lì pure senza introduzione:
Luigi, da quando avevamo avuto le bambine, non poteva concepire differenze tra maschi e femmine, la prendeva come un’offesa personale. Quando gli avevo fatto leggere la voce donna e i sinonimi sull’enciclopedia si era messo a piangere […].
AH, AH, AH, AH, LOL. E questo mi sembra l’unico commento possibile.
C’è da rimanere carsici
Tenete duro, magnifici lettori, ho ancora da trattare lo stile. In realtà, si è già parlato molto dello stile, in particolare ne ha trattato l’articolo di un giornale semisconosciuto di provincia, chiamato: Il Giornale.
Allora, se per qualche motivo, magari mentre pulivate il pesce, vi è capitato di leggere il suddetto articolo, fatevi un favore: dimenticatevelo. Che poi, anche voi, se quello che cercate è una critica letteraria… una critica letteraria cazzuta… una critica letteraria cazzuta e competente… che cavolo vi rivolgete a Il Giornale? Quella “stroncatura”, in verità, crede di spalare quintali di letame sullo stile della Valerio, ma… porta come prove frasi ed espressioni che non possono davvero considerarsi sbagliate! Per esempio, c’è perplessità riguardo l’uso che la Valerio fa dell’aggettivo “malmesso”:
Ad esempio trovo un «palazzotto malmesso», ma malmesso non è riferito alle persone? Come si legge sul vocabolario Treccani è desueto usare malmesso per oggetti e al massimo lo si può adoperare per «un ambiente malmesso». [Gian Paolo Serino, Valerio in odor di Strega ma è tutt’altro che “chiara”, Il Giornale, 9 aprile 2024]
D’accordo, sarà come dice la Treccani, è desueto. Ora, a parte che usare parole o espressioni desuete non è mai stato un errore, e che mettere in croce Chiara Valerio per una roba del genere è ridicolo… però, dico io… Il Giornale ha mai sentito parlare di “personificazione”? Perché è un artificio retorico valido, eh! Quindi, mi tocca proprio difendere la nostra autrice: “palazzotto malmesso” non ha niente che non vada, e se le stroncature sui quotidiani si basano su inesistenti pagliuzze, quando ci sono in effetti delle TRAVI, mi sa tanto che a questo punto c’è da vergognarsi di entrare in edicola.
A proposito di inesistenti pagliuzze, sono costretta a continuare con la mia crociata contro Il Giornale. Sì, perché l’articolo prosegue lamentandosi di una frase che… non esiste nel romanzo:
Poche pagine dopo mi imbatto in «Mara era rimasta carsica» e qui mi areno. Come fa una persona a rimanere carsica? [Ibid.]
Sempre il solito discorso, è una figura retorica, al massimo possiamo giudicarla brutta, goffa, ma stupirci perché “ehi, la gente non è carsica” è da… non dico da cosa. Ad ogni modo, il punto è che questa è la vera citazione tratta da Chi dice e chi tace:
[…] quella informazione, in sé succosa, di Mara che non era la figlia [della vecchia], non aveva generato pettegolezzi. Era rimasta carsica. Acqua che scorre sotto i piedi degli scauresi come il rio Capo d’Acqua che era stato interrato e dal Parco delle Trote fino al mare era visibile solo per brevi tratti.
Basta aver superato l’esame… ma no, non di giornalista… di terza media, per capire che “carsica” non è riferito a Mara, bensì all’informazione! Il brano, in effetti, è molto semplice: la Valerio vuole dirci che la notizia non diventa un pettegolezzo e viene ignorata, proprio come succede all’acqua carsica, che scorre nel sottosuolo senza dare particolari segni in superficie. Mi tocca essere sincera, è un’immagine azzeccata, in fondo, e non ci vuole nulla per coglierla e apprezzarla.
Pazzesco, sono l’unica sanguisuga di blogger che la Valerio si ritrova al fianco per difenderla dagli oppositori!
Incisi abusati e congiunzioni copulative
Comunque, io sono una bestiaccia: se Il Giornale non sa argomentare, almeno riesce ad avere delle intuizioni corrette. Eh sì, l’ho anticipato: Chi dice e chi tace ha delle travi nei suoi occhi, e forse anche in altre parti. Insomma, capiamo di essere finiti nella cacca già dall’incipit:
Il lunedì mattina, in studio, mentre cercavo di convincere il ferramenta e sua moglie a non sporgere denuncia dopo che il figlio minorenne aveva avuto la peggio in una rissa, Cristina, la mia segretaria, era entrata nella stanza per avvertirmi che una donna insisteva per parlarmi al telefono.
Santo cielo, in un solo periodo c’è un tale abuso di incisi, che la lingua italiana ha presentato istanza per ottenere un ordine di protezione!
Anche a questo mi riferivo quando, in precedenza, ho affermato che serve una buona conoscenza della tecnica. Un autore avveduto avrebbe innanzitutto selezionato con cura le informazioni da comunicare, e poi avrebbe optato per un ritmo più pacato, scegliendo di spezzare in più punti il periodo. Uhm, forse più che un discorso astratto è meglio un esempio concreto. Tenendo conto che io non sono affatto un’autrice decente (perché non sono un’autrice), ecco come avrei iniziato il romanzo:
Il lunedì mattina arrivai nel mio studio di buonora, per essere puntuale all’appuntamento con il ferramenta e sua moglie. Volevano sporgere denuncia contro il ragazzo con cui sabato sera il figlio aveva fatto a cazzotti.
«Signor Ferramenta, è sicuro di sporgere denuncia? Sono solo ragazzi, non ne vale la pena.»
«Sta scherzando? Mio figlio poteva rimanere offeso! È una questione di princi…»
Senza bussare, la mia segretaria entrò nella stanza. Non mi erano mai piaciuti i suoi modi.
«Cristina, te l’ho già detto altre volte, se la porta è chiusa vuol dire che sono impegnata.»
«C’è una donna al telefono» disse ignorandomi completamente, «insiste per parlarti adesso.»
È un incipit indimenticabile? No, anzi spero ve lo dimentichiate al più presto. Ma notate da voi che è molto più “leggibile”, rispetto all’originale: le informazioni sono distribuite gradualmente, e c’è un poco di show don’t tell che rende la scena più vivace, più coinvolgente.
Peccato, ormai quel che scritto è scritto. Ma tranquilli, l’incipit è solo un antipastino (già digerito, processato ed espulso), godetevi questo primo piatto:
Lorenzo, il primo figlio di Pietro, che era stato mio compagno di classe alle medie e allora lavorava in banca, non allo sportello ma dentro, negli uffici, visto che si era laureato all’Università di Cassino, stava a casa con la moglie, poteva essere il 1982 o il 1983, di maggio, e quando Vittoria aveva suonato il campanello, aveva tardato ad aprire e si era scusato, perché Sonia, la moglie, era al bagno, probabilmente la sera prima avevano mangiato pesante e aveva la pancia in subbuglio.
Eh, eh, eh, questi incisi… sono come le ciliegie o le “pippe”, uno tira l’altro, vero? Bah, lasciamoli perdere, concentriamoci invece sul valore del brano nella sua totalità.
Occhei.
Che diavolo di bisogno c’è di sbrodolare il curriculum di Lorenzo?! ’Sto Lorenzo è uno stronzo di personaggio che compare solo in questa scena, non lo rivedremo MAI PIÙ, chi se ne frega di cosa ha studiato e di qual è il punto esatto in cui si trova il suo ufficio del caaaaaazzzzzzoooooo?!
Vabbè, tanto anche quando il discorso ha un minimo di ragion d’essere, la nostra autrice si assicura di distruggerlo, maciullandolo con la sua bizzarra concezione di come vanno usati i segni di punteggiatura:
Manuela della cartolibreria in piazza Rotelli aveva detto al marito che lavorava al bar Luccioletta, e aveva la tendenza a dire tutto a tutti, che Vittoria aveva ordinato un libro chiamato I Ching e dunque forse non era cattolica.
Non riusciamo “e dunque forse” proprio a uscire da La matematica è politica, eh? L’influsso ciabattesco è troppo potente, mi sa. Eddai, nel brano riportato, la Valerio ha disposto le virgole in un modo che rende difficile capire qual è l’oggettiva retta da “Manuela aveva detto che”. Insomma, cos’è che Manuela dice a suo marito?! A una prima lettura, sembra che la tizia voglia metterlo al corrente del fatto che qualcuno lavorava al bar Luccioletta. Un po’ strano, e infatti si capisce solo in un secondo momento che la proposizione oggettiva è un’altra: “Vittoria aveva ordinato un libro”. Ah, è il marito di Manuela colui che lavora al bar! D’accordo, ma se l’informazione riguarda il marito, perché è separata dall’altra informazione, sempre riguardante il marito (“aveva la tendenza a dire tutto a tutti”)? Perché c’è la virgola, considerando che in realtà le due informazioni sono legate da una congiunzione coordinante copulativa… sì, insomma, la “e”?!
Perché cavolo bisogna scrivere quel casino quando basta una cosa così:
Manuela della cartolibreria in piazza Rotelli aveva detto al marito, il quale lavorava al bar Luccioletta e aveva la tendenza a dire tutto a tutti, che Vittoria aveva ordinato un libro […].
Davvero, non capisco i motivi che spingono la Valerio (ma anche la Ciabatti, come ho detto, e Baricco, e…) ad attorcigliare la punteggiatura. È vero che si può fare, per ottenere particolari effetti retorici, ed è vero che esiste il flusso di coscienza. Ma, nel primo caso, bisogna (ancora una volta) conoscere molto bene la tecnica e sapere quando è il momento di usarla, nel secondo bisogna ricordarsi che ci si sta dilettando con qualcosa di “sperimentale”. Perché sì, il flusso di coscienza non è proprio una forma “naturale” di scrittura: è più che altro un “vediamo cosa succede se…”, non si tratta di qualcosa che “ommioddio questo è il vertice dell’arte”.
E, più di tutto il resto, bisogna ricordarsi che la punteggiatura e le sue regole esistono principalmente per un motivo: farsi capire!
Name gag
Niente da fare. Cioè, non solo Chiara Valerio ama mettere i suoi punti e le sue virgole in situazioni imbarazzanti, secondo lei c’erano un po’ troppi segni, e così ha deciso di eliminarne alcuni. Le virgolette, in particolare. È una faccenda che va avanti da tempo, in realtà, anche i suoi saggi erano così. E lo stesso genocidio l’avevano compiuto la solita Ciabatti e la poetona™ Maria Grazia Calandrone.
Perché? Ah, non lo so. Ma le conseguenze sono esilaranti.
Ad esempio, essendosi inchiappettata da sola con la sua scelta, la nostra autrice è costretta a marcare i dialoghi con espedienti… ehm… wow, gradevolissimi. Il suo preferito è anche il più semplice: i personaggi si chiamano di continuo per nome o secondo la loro qualifica…
Avvocato Russo, io sono un padre, non voglio che Riccardo cresca con l’idea che si può picchiare o essere picchiati senza conseguenze.
Angelo, voglio sia chiaro che stiamo procedendo in una direzione che macchierà la fedina penale di un minore, forse di più minori.
Lea, il ragazzo che ha lanciato la bottiglia è di Roma […].
Avvocato, può rimanere seduto, non è il suo ufficio, è il mio.
Dottoressa, sono ancora un gentiluomo, mi alzo per una signora, nonostante sia una signora che, come le ho detto, ci ha portato male.
Si calmi, avvocato Pontecorvo.
Lei moderi i termini, avvocato Russo.
Tomma’, dimmi a me, ma tu pensi che Vittoria fosse malata?
Lea, io penso che sclere così gialle le ho viste solo negli stadi terminali dei tumori al pancreas, ma è morta affogata, non è morta per il tumore, se c’era.
Tomma’, ma tu l’autopsia l’hai fatta?
Lea, che ti devo dire?
Ah, ah, ah, ah, ’orco cazzo, ma chi parla così nella vita reale?!
Menzionare qualcuno serve per attirare la sua attenzione, perciò di solito lo facciamo all’inizio di una conversazione, oppure quando stiamo per dire qualcosa di davvero importante. In tutte le altre fasi di un dialogo, e potete constatarlo da voi, non chiamiamo per nome il nostro interlocutore, perché se lo facessimo sarebbe strano e C-R-I-N-G-E.
Ehi!, tanto i dialoghi di Chi dice e chi tace sarebbero irrecuperabili anche se togliessimo i “name tag”. È che i personaggi sembrano dei robot, parlano… senza parlare davvero. Esaminate questo dialogo:
[Mara] Vabbè, Le’, Mariella ha fatto la maturità e […] ha avuto una illuminazione su una poesia di Leopardi, mo’ non mi ricordo la poesia, l’assessore me l’ha pure detta.
[Lea] Ho lasciato le sigarette giù.
LOL, ma che… ?!
Questo mi ricorda la famosissima “telenovela piemontese”, Sogni d’amore, in cui il cinghialesco protagonista cerca di intavolare un discorso parlando della sua “giornata molto particolare”, solo per essere immediatamente sfanculato dalla suocera che gli chiede se vuole qualcosa da bere. Insomma, è lo stesso canovaccio! Solo che la telenovela piemontese è ancora oggi oggetto di pernacchioni, mentre Chi dice e chi tace… oh, basta, ormai lo sapete fin dove è arrivato Chi dice e chi tace.
E se pensate che si tratti di un caso isolato, preparatevi a ricredervi. Infatti, lo schema si ripete immediatamente, e una Mara per nulla risentita dal fatto di essere stata ignorata, ignora a sua volta Lea, come se questa non fosse mai esistita:
Ho lasciato le sigarette giù.
Vedi perché a Vittoria piaceva parlare con te?, tu ti saresti ricordata la poesia di Giacomo Leopardi, casomai la sai a memoria, che poesia può essere?
Ah, spero non vi sia passato di mente che Lea dovrebbe indagare su Mara e che Mara dovrebbe sentirsi sospettata…
Le ultime osservazioni che mi sento di fare, a proposito dello stile, riguardano il… sigh… senso dell’umorismo del romanzo, e il suo classismo.
A proposito del… sigh… senso dell’umorismo di Chiara Valerio, non credo ci sia altro da fare, oltre a lasciar cadere in terra la mandibola, dopo aver letto passaggi come questo:
Parlava [la vecchia], divertendosi, di cose delle quali non si sarebbe potuto o dovuto ridere. Le persone che si mettevano le corna. Che si facevano le cappelle mortuarie bifamiliari sopra al cimitero. Quelli che inciampavano. Quelli in sedia a rotelle bloccati dalle barriere architettoniche. Ma ci pensi?, barriere e basta, altroché.
Capisco che le mie parolacce, sfuriate, offese e immotivate minacce alle istituzioni possono non andare a genio ad alcuni di voi, lettori, però riflettete attentamente, ché se rinunciate a me vi beccate quella roba lì, eh!
Per quanto riguarda il classismo… è vero, fa strano che un’autrice dichiaratamente queer, che ha collaborato con La Repubblica, che è vicina a Elly Schlein… ehm… vabbè, sì, il romanzo è un po’ tanto classista, in effetti. Di prove ce ne sono parecchie, vi riporto quelle che ho trovato più simpatiche:
[…] la creatività del geometra trova il suo terreno più fertile, la frustrazione per non aver concluso gli studi di architetto si lenisce.
E ancora stiamo con la differenza tra forma e sostanza, pensavo leggendo gli appunti delle maestre ai temi delle mie figlie, ma restavo in silenzio, perché io e Luigi eravamo laureati e loro no.
[…] Luigi sosteneva che avrebbe fatto l’ingegnere, cosa che non credo gli facesse particolarmente piacere visto che lui aveva studiato Fisica e considerava gli ingegneri geometri con la laurea.
Lei insorgeva che non lo aveva fatto studiare per poi mandarlo in giro come uno straccione.
[…] [L]e [alla vecchia] piacevano gli artisti, gli scienziati, la razza sacra insomma […].
In casa di Filomena [che non aveva buoni voti a scuola] andavano in giro come gli straccioni.
[La vecchia] Mi chiedeva come fosse la nostra vita da giovani laureati in un paesino dove quasi nessuno era laureato […].
In tutta sincerità non sono sicura che i precedenti stralci vadano presi sul serio. Tuttavia, non prenderli sul serio ne farebbe ulteriori esempi di comicità marca Valerio, e poiché questa alternativa mi turba molto, preferisco considerarli dei genuini apprezzamenti per le lauree e i titoli di studio in generale. D’altronde, non posso nemmeno obiettare troppo, ogni anno, potete vedere, schiere di laureati si contendono la vittoria del Premio (Mezza)Strega, mentre io sono solo una blogger.
Per la vostra gioia, passiamo alle conclusioni, non prima, però, di avervi regalato quest’ultima perla:
Così i bambini sembravano i mille piedi di un millepiedi.
… e anche Valerio!
Bene, non so perché questi romanzi queer mi fanno versare fiumi d’inchiostro (virtuale). Era successo con Spatriati, ora ’sta roba… mah. Com’è, come non è, il mio giudizio finale: “Oof! Maronn, he looks terrible!”, per citare l’indimenticabile Paulie Gualtieri de I Soprano.
Sì, oggettivamente, e cioè sotto tutti quegli aspetti che si possono “misurare”, come l’aderenza ai topoi del genere, il rispetto delle più elementari norme grammaticali, il ritmo, la verosimiglianza, o anche la sovversione di tutto ciò… uff… allora, sotto tali aspetti il libro è pietoso. Proprio brutto.
Ed essendo, o dovendo essere, la critica letteraria fondata sugli aspetti di un’opera valutabili oggettivamente, Chi dice e chi tace si becca una stella.
Poi c’è anche l’aspetto soggettivo, lo so bene, e lo ricordo molto spesso.
Riprendo da dove sono partita, all’inizio di questa recensione: sono stata molto dura con Chiara Valerio negli episodi precedenti, ma c’è il motivo che vi ho spiegato. Si trattava di saggi, o comunque di “non-fiction”. Roba seria. E se nella roba seria trovo delle palesi stupidaggini, che poi magari il pubblico impara e ripete, non mi va di andarci troppo per il sottile con mezze misure. Le mezze misure, spesso, non portano a nulla di buono.
Stavolta, però, è diverso. Chi dice e chi tace è un romanzo, è pura fantasia. Oggettivamente è BLEARGH!, ma questo non implica che non possa piacere. Magari ha anche un suo fan club, non so. Se ce l’avesse? Ben per lui, e per la sua autrice. Non c’è nulla di male nello scrivere libri come questo: finché li pubblicano, perché no?, dico io. Come al solito, se l’autrice volesse provare a esplorare altre vie, se volesse fare un miglior lavoro di lima, io spero che la mia cattivissima recensione possa essere intesa (anche) come una critica costruttiva. Ma se a Chiara Valerio non interessa, ehi!, a me va più che bene: se scriverà romanzi eccellenti, le farò recensioni piene di lodi, se continuerà su questa strada, io mi diverto un mondo con le stroncature!
In precedenza avevo consigliato di evitare i saggi della nostra autrice. Confermo la dritta. Per quel che riguarda Chi dice e chi tace, invece (LOL, scusate il bisticcio), vi dico: dategli una letta, se vi capita. Male non vi farà, alla peggio lo prenderete in giro come ho fatto io. O magari vi piacerà. In quest’ultimo caso, pur disconoscendovi, sarò contenta, perché avrete comunque fatto una buona lettura!
Che dire…bravissima, un’analisi puntuale e super azzeccata. Il libro mi è stato regalato, associarlo al premio Strega aiuta le vendite. Non credo di avere fatto una buona lettura, non lo consiglio proprio a nessuno