Buonvino e il circo insanguinato – Walter Veltroni
Buonvino mostrò […] due atteggiamenti che, sui testimoni reticenti, facevano l’effetto di un lassativo.
Il Maestro del thriller colpisce ancora
Lettori, voi non sapete, io sono stata davvero in ansia. Oh, un momento, sì, lo sapete, vi ho detto che sono un po’… ehm… pazza, eh, eh. Ma non mi riferisco agli scherzi che mi gioca la mente, in verità ho avuto un motivo più che valido per essere preoccupata. Il Maestro, lettori, il Maestro. Walter Veltroni. Cioè, Buonvino tra amore e morte… il tentato assassinio… il cliffhanger… e poi silenzio. Passa un mese. Passano sei mesi. Passa un anno. Niente. PANICO!
Che, il Maestro si rifiuta di scrivere? Già aveva mostrato segni di apatia… gli è venuta la depressione? Ohi, mica sarà colpa mia?! PANICO!
Vi giuro, sono andata avanti a tormentarmi con simili dubbi per settimane e settimane. Ho provato a cercare una soluzione, che so, mettere sul blog uno striscione con la faccia del Maestro, rivolgermi a Chi l’ha visto?, pagare una medium, votare PD in una qualsiasi elezione amministrativa, anche di altri Paesi. Ma poi… poi!
È arrivato, è arrivato, è qui: Buonvino e il circo insanguinato. Dopo un anno e sette mesi, il vero thriller torna a occupare il suo posto nelle librerie e nelle classifiche di tutta Italia. Il quinto capitolo, finalmente: è una buona notizia per tutti noi affezionati lettori di Veltroni. Buona e rassicurante. E siccome mi sento rassicurata, direi bando alle ciance ed entriamo subito nel vivo della recensione, così al più presto potrà udirsi la nostra eco di consensi ammirati. Ma vi avverto: essendo io una dannatissima miscredente guastafeste, infrangerò senza riguardo il grande tabù dei recensori del Ventunesimo secolo, e da qui fino alla fine della recensione vi proporrò un fottio di spoiler. Va bene, dai, via con questa analisi…
Allora, lettori, come vi ho ricordato poc’anzi, il Maestro ci aveva regalato un colpo di scena (mica) da ridere, in Buonvino tra amore e morte: l’ex marito (nel senso che, fino al terzo libro della saga, era identificato come “marito”) ex fidanzato della gnocca Viganò, Roberto, aveva fatto il suo cazzutissimo comeback con tanto di mazzo floreale, lasciando la signora Buonvino confusa e preda di emozioni contrastanti. Lo Hugh Grant der Cupolone, ovviamente, aveva assistito attonito alla scena, conscio che qualcosa di grosso stava per… ehm… ergers… ehm… cioè, conscio che qualcosa stava per… ehm… stava per mettersi… fra… lui… e… e la neosposa, gulp! Oh, il nostro eroe era veramente preoccupato, tanto da tirare in ballo perfino Thomas Eliot, durante la sua pippa mentale a conclusione del romanzo. Sentite, vale la pena che vi riporti il pezzo, va’:
Giovanni notò che Veronica aveva gli occhi lucidi. Disse di nuovo «Roberto!», nulla di più. Il tono però non era quello di Sophia Loren quando premiò Roberto Benigni a Los Angeles: era una voce squarciata dalla fatica di parlare, dalla sorpresa, dallo stupore, dal dolore.
Il commissario si rese conto in quel momento che tutto stava per cambiare, di nuovo.
[…]
Adesso Roberto non era più il passato, il passato dolce da rimembrare e rispettare.
Era tornato, era corpo e ricordi. A Giovanni venne in mente un verso di uno dei Quattro quartetti di Eliot: «Il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.»”
[Buonvino tra amore e morte, cap. XXXIV]
E finiva così, appunto. Con un supremo cliffhanger (l’ultimo dei circa mille disseminati in Buonvino tra amore e morte). Ve lo devo confessare, quel finale mi aveva lasciato un sacco di hype. Mi aveva riportato agli anni d’oro di Beautiful, quando si scopriva che Taylor non era morta in un incidente aereo ed era diventata tipo la principessa del Marocco, o quando si scopriva che a Los Angeles, o dove cacchio vivono quelli, ci sono lupi che ululano quando sentono profanata una tomba.
Non so se mi spiego: per più di un anno, PER PIÙ DI UN ANNO!, ho tenuto impegnate le meningi con le peggio fanfiction a continuazione del cliffhanger. E un triangolo amoroso incredibilmente tragico e passionale, e Buonvino che scopre un oscuro lato di sé, e un duello finale fra il commissario e Roberto, e la Viganò incinta… insomma, tanta, tanta roba. Neanche a dirlo, non sapevo cosa avrei trovato davvero, però sapevo che il quinto (ehi, ora che ci penso, Buonvino è praticamente coetaneo del vostro blog preferito!) romanzo si sarebbe aperto con una scena potente, e un po’ triste, un deciso punto di svolta. E infatti…
«Voi come l’avete saputo? Quando l’avete saputo?»
«Cosa, commissario?» domandò distrattamente Olivieri, intento a sfogliare una rivista nella quale si sosteneva che l’affondamento del Titanic sarebbe stato deciso dalla setta degli Illuminati come parte di una strategia globale volta a destabilizzare la monarchia inglese. [LOL, che cazzo legge? La teoria del complotto, di solito, è quella di una truffa assicurativa ordita da J. P. Morgan]
«La questione di Babbo Natale.»
«Quale questione?» chiese Gozzi, che pur essendo narcolettico aveva i riflessi pronti nelle discussioni.
«Scusate se insisto, ma questo fatto che Babbo Natale non esiste… Anzi, non esisterebbe.»
Ma… ma… MA CHE È?! Ancora la storia di Babbo Natale?!
Eh, eh, eh, eh… booollicineee! (leggetelo con la voce di Eddie Murphy)
Eh sì, lettori, “ancora”: perché Buonvino aveva già posto ai suoi uomini (e alla “sua donna”, ah, ah, ah!) questa esatta, precisa, domanda, proprio in apertura di C’è un cadavere al Bioparco, quindi una vita fa, praticamente…
Il commissario attese che nella stanza calasse un silenzio teso, esplorò con gli occhi ognuno dei suoi colleghi, e poi disse, solenne: «Vorrei che mi diceste quando e come avete saputo che Babbo Natale non esiste. Ammesso e non concesso che sia così. Ma voglio essere chiaro: accetto solo l’assoluta verità. Per quanto dura possa essere. Bene, chi inizia?»
[C’è un cadavere al Bioparco, cap. I]
Occhei, cosa sta succedendo? È una sorta di inside joke che noi millennial non possiamo capire? Veltroni ha avuto di nuovo delle amnesie e si è dimenticato di aver scritto altri romanzi di Buonvino? È una profonda inquietudine filosofica che il Maestro manifesta così nella sua scrittura?
Calma, calma, non è successo niente. Credo di capire… cioè… ma sì, il Maestro ci sta tenendo ancora sulle spine! È già successo qualcosa, nell’universo narrativo, Buonvino e il circo insanguinato ci chiede un piccolo sforzo di immaginazione: la situazione emotiva è tesa, e il commissario è colto in un momento in cui tenta in maniera goffa di mostrarsi disinvolto. È turbato, evidentemente straparla. Sì, dev’essere così. Dopo il primo, brevissimo capitolo, arriverà l’azione vera, e il Grande Cliffhanger sarà compiuto.
Già, solo che il primo capitolo non è proprio brevissimo. E vabbè, continuiamo a leggere…
«Il primo che lo chiama “Bollicine” per me può anche andare a Guantánamo, senza processo» disse il commissario, aggiornando la “colonna infame” delle parole proibite nel suo commissariato. Nel corso degli ultimi mesi, Buonvino aveva aggiunto: “Ci sta”, “Adoro”, “Bro”, “Fra”, “Spoilero”, “Creator digitale” e “Influencer”.
Ehm… turbato… però non so, questo è un po’ il solito Buonvino tritapalle. Ce l’ha di nuovo con l’italiano imbastardito. Niente, la sua personale crociata contro le brutte parole non la mette in pausa neanche quando c’è in ballo l’amore di sua moglie. D’altronde, non l’aveva fatto quando sua moglie era in coma, pure io di che cacchio mi stupisco?
Che poi, a proposito dei prestiti linguistici, desidero aprire una piccola parentesi: a Hugh Grant da’a carbonara, guarda che non ci sta niente di male in quelli, eh?! La nostra lingua (come tutte le altre, del resto) ne è piena, e ciò perché il prestito linguistico spesso ci aiuta a comunicare con maggiore efficacia e, soprattutto, con maggiore rapidità. Se proprio abbiamo tempo da perdere e vogliamo fare la guerra ai forestierismi, non dovremmo scagliarci contro i prestiti di necessità (ovvero quei prestiti di cui non esiste un corrispettivo nella nostra lingua, come… ehhhh… “influencer” e “creator”?), bensì contro i prestiti di lusso, ossia quei termini che possono essere sostituiti da equivalenti italiani. Per esempio, “computer” in luogo di “elaboratore” è un prestito di lusso, diventato dominante perché… perché è più breve, perché internet l’hanno inventato gli Yankee (e quindi lì si parla come decidono loro), e perché fa figo, fa internazionale. E gli Italiani vogliono sentirsi fighi e internazionali. Anche “smartphone” è superfluo, perché abbiamo già le parole “cellulare” e “telefonino”, le quali sostanzialmente significano la stessa cosa (e infatti pochi, anche fra i giovani, usano il lungo e cacofonico “smartphone”, tutti gli altri continuano a preferire “cellulare”… insomma, lo usa pure Mahmood!). Comunque, provate un po’ a indovinare chi è che parla di “smartphone” e di “computer”, fra le altre cose? Esatto, il nostro purista…
Sul grande schermo del computer […].
In una mano la forchetta, nell’altra lo smartphone.
Ah-ah, qui mi sorge un sospetto: ma non è che il Maestro ce l’ha con l’espressione “creator digitale” perché gli stanno sulle palle proprio i creator… o le creator… o “certe” creator…?
I suoi uomini e la sua donna
Mah, chiusa la parentesi, torniamo a noi. Dunque, il primo capitolo si perde in chiacchiere, dicevo. E anche il secondo è una caterva di inutili ciarle. Perciò: quand’è che arriva ’sto conflitto che risolve il cliffhanger e ci trasporta nel vivo del romanzo?
Ovviamente nel terz… ah, ah, ah, ah, ma quando mai?! Lettori, il fatto è che non c’è nessun conflitto! Tutto va a gonfie vele, la Viganò ha in testa solo il figo di Villa Borghese, di essere stata sposata prima, e fidanzata poi, con quel poveraccio di Roberto manco se lo ricorda. È UN CAZZO DI IDILLIO! Lettori, ditemi voi, cioè, il terzo capitolo, sì il terzo!, inizia esattamente con queste parole:
Quella sera, Buonvino la luce non la spense presto. Dopo i festeggiamenti in commissariato, lui e Veronica avevano cenato al ristorante.
Con loro si erano seduti a tavola anche Roberto e la sua nuova compagna, quella che aveva conosciuto appena arrivato presso la sua nuova sede di lavoro a Trento […].
LA SUA NUOVA COMPAGNA?! Tutto qui?! E l’arco narrativo iniziato nel precedente romanzo? Oh carissimi, andiamo, è il Maestro! Semplicemente, sfancula quell’arco narrativo che LUI STESSO aveva abbozzato, e… e niente, uscita a quattro, bam! E vi dico, vi dico!, ringraziate che sia una semplice uscita a quattro e non un foursome o chissà che altra sconcezza.
Lettori, io sono solo una povera blogger millennial, e non posso certo pretendere di capire certe cose: tutto quel che mi resta da fare è ammirare stupefatta e in silenzio una tale gemma di purissimo cringe. Nah, macché in silenzio! Insomma, voglio almeno sottolineare che perfino Veltroni, a un certo punto, deve essersi reso conto che qualcosa era fuori posto: uno spontaneo moto di consapevolezza da cui è scaturita LA SPIEGAZIONE.
Oh, non state lì impalati, c’è una spiegazione plausibile per tutto, per il cliffhanger castrato, per i capitoli inutili, per il generale “spirito natalizio” (cit. Fiore) che sembra permeare Buonvino e il circo insanguinato. E questa spiegazione è: Buonvino non è un tipo geloso…
Non era geloso, sentimento che aborriva come sinonimo di un istinto possessivo che non gli apparteneva, né tantomeno aveva paura del “tradimento”, altra parola assurda […].
Se Veronica avesse voluto ritrovare Roberto, e con lui i giorni che avevano vissuto, a Buonvino non sarebbe apparso come un insulto, un “tradimento”: non si sarebbe sentito parte lesa. Aveva fiducia nella forza del loro rapporto, che non era esile come un filo facile a spezzarsi, e confidava nel fatto che il loro amore, profondo e ben ancorato, fatto di parole e di sguardi, di passione e di rispetto, di solidarietà e del desiderio di invecchiare insieme, non sarebbe stato compromesso da momenti di disagio, negare i quali, quello sì, avrebbe potuto essere fonte di oppressione.
Tuttapposto, lui non è geloso! “Ehi, tu, laggiù, ti piace questa bitch, qui? E tu, con quello sguardo da triglia, vuoi farti un giro con lei? Venite, nessun problema, fate i vostri comodi, ’sta zoccola è insaziabile, garantisco io!”.
Ah, ah, ah, ah, ah! Oh santo cielo, lettori, ma che diavolo sta succedendo? Ma come Buonvino “[n]on era geloso”?! E pensiamo di risolverla così? Come la mettiamo col fatto che nel quarto romanzo il commissarione sembrava pensieroso e alquanto preoccupato, a seguito del ritorno di Roberto? No, siamo noi che abbiamo equivocato, stava pensando: “Meh, sì magara je dà na botta, boh… chissene”, LOL!
Oltretutto, mi viene in mente adesso, il buon Veltroni pensa di aver tratteggiato l’eroe definitivo, bello come Hugh Grant e con una moralità che il Mahatma Gandhi je fà na pippa, solo che… eddai, il discorsone sull’amore libero da hippie pulcioso è ridicolo! Non si rende conto, il Maestro, che le parole di Buonvino non sono poi così lusinghiere? La gelosia è come un veleno, verissimo: quindi è la dose che fa la differenza! Troppa conduce all’ossessione, al possesso, alla vessazione, addirittura al crimine. Ma poca, giusto un pizzico, è segno di un sano e profondo interesse per la persona che si dice di amare. Va bene che il nostro eroe non voglia costringere sua moglie in nessun modo, tuttavia c’è una bella differenza fra “se succede non potrò impedirlo, ma, cavolo!, non voglio che succeda, non voglio perderla” e “se succede un momento di disagio… uh… ’sti cazzi, tanto poi torna”, no?
Eppure è proprio la seconda opzione a riassumere il mood di Buonvino. Che, forse dobbiamo dedurre che la Viganò è alla stregua di un oggetto qualunque, per il commissario? Be’, forse sì, sapete, non è che le donne ne escano proprio benissimo, dalla saga di Villa Borghese. La Robotti (oltre a essere inclusa fra gli altri “minorati”, in quanto… donna) era un regalino per il n… il mul… ehm… il caffelatte Cecconi, quella vecchia random di Buonvino e il caso del bambino scomparso serviva a eccitare il vedovo ipovedente Portanova, la stessa Viganò era stata immediatamente presentata come sogno erotico di Buonvino, e adesso abbiamo una tipa introdotta dal nulla al solo scopo di tenere compagnia a Roberto. Fate un po’ voi, io sono dell’idea che il Maestro abbia sperimentato una sorta di “effetto Mandela” riguardante quella famosa affermazione di Coco Chanel, e che si sia convinto che essa reciti: “la donna è un accessorio dell’uomo”. Annamo bbbene!
Eh, eh, “rant over”, come si usa dire nel uebbe. Tornando all’analisi del testo, ecco… sono convinta che al Maestro il discorsone sull’amore libero da hippie pulcioso sia parso una spiegazione più che eccellente, tuttavia, con molta umiltà e rispetto, vorrei puntualizzare che a mio avviso è una spiegazione un tantino di merda. D’accordo, giustifica il fatto che Buonvino sia contento (o indifferente?) per l’uscita a quattro, ma tutto il resto?
Ad esempio, non abbiamo idea del perché la moglie del commissario non abbia nemmeno considerato di prendersi una breve pausa di riflessione per fare chiarezza sui propri sentimenti: passiamo direttamente dalla Viganò frastornata e coi lucciconi del finale di Buonvino tra amore e morte, a una Viganò allegrona che si diverte col caro vecchio AMICO Roberto. Maestro, è della psiche di Buonvino che si è parlato, non è che se lui non è geloso allora sua moglie automaticamente è in pace con sé stessa e non prova più nulla per il suo ex, che razza di nesso causale è?!
Inoltre, pur con tutti gli sforzi di Veltroni, non abbiamo idea del perché Roberto si sia buttato a capofitto in una nuova relazione: l’ha fatto per dimenticare Veronica, o davvero non nutre più sentimenti per lei? Io resto dell’opinione che in precedenza vi ho confessato: Roberto se ne stava lì, poi a un certo punto è comparsa la mano del Maestro che gli ha posto accanto una donna creata dalla sua stessa carne, perché gli fosse d’aiuto e simile a lui. E Roberto chiamò la donna… chi se ne frega, non è abbastanza importante per dover ricordare il suo nome.
Ehi, lettori, ci avete pensato? Siamo solo al terzo capitolo e già c’è un gigantesco buco di trama. Non solo, Veltroni è riuscito a rovinare ben due romanzi, e uno di essi addirittura retroattivamente, ed era pure un romanzo già molto, molto rovinato di suo! So che lo dico ogni volta, tuttavia: ecco perché lui è il Maestro e io sono solo una… eh, eh… creator digitale (che spoilera ai suoi bro).
Povero Ivaaano, che pena mi fai!
Benissimo, allora, giusto per fare il punto della situazione, l’eroe Buonvino ha pigramente sventato la crisi del suo matrimonio, sì, però la sua vita non è tutta rose e fiori. C’è un guaio, lettori cari: il suo fraterno amico, Ivano il barista, si ammala gravemente.
Occorre che faccia una premessa seria, e quando dico seria prendetemi seriamente, dimenticando tutte le parolacce che ho scritto e che scriverò ancora, dopo. Ebbene, da quel che ho potuto capire, non si è trattata di una scelta arbitraria: il personaggio di Ivano è infatti ispirato a una persona reale, la quale purtroppo ha recentemente lasciato questo mondo.
Con vero rispetto per la povera anima, e per Veltroni stesso, che avrà sofferto per la scomparsa, posso comprendere l’omaggio letterario. Nulla da dire su questo, l’intento è nobile ed è ovviamente slegato da ogni calcolo puramente “tecnico”, “artistico”. Personalmente, se me lo concedete, ritengo anzi che la decisione di far ammalare l’Ivano personaggio sia ottima. Sappiamo bene che uno dei modi migliori per elaborare un lutto è dedicarsi all’arte, in particolare alla scrittura, la quale possiede un’intrinseca e impareggiabile funzione catartica. Immaginandosi il dolore che il male di Ivano provoca in Buonvino, Veltroni ha probabilmente concesso a sé medesimo di affrontare il lutto reale e, se teniamo a mente questo, il romanzo ci risulta senza dubbio toccante. Quindi, sento di poter qualificare come “commovente” Buonvino e il circo insanguinato, senza alcuna vergogna e senza tema di sembrare un’ipocrita. Perché, sì, davvero lo posso considerare sotto una luce positiva se rifletto su uno dei motivi reali che hanno contribuito all’elaborazione della sua trama.
Nondimeno, e qui mi spiace molto ma devo chiudere il momento serietà, io mi sono autoproclamata “critica di prim’ordine”, e sono pertanto costretta a mettere da parte la realtà e le persone vere, per sminuzzare le fantasticherie narrative e i personaggi fittizi. E se rivesto i panni della “fottuta bulletta” (semicit.) devo constatare che la scena stessa in cui Ivano rivela a Buonvino di essere malato è… letterariamente parlando, eh, sia chiaro… ’na strunzada apocalittica. Leggete un po’…
Si capiva, o almeno Buonvino capiva, che il corpo di Ivano era lì, in quella stanza, ma la sua mente altrove. Un altrove lontano e malinconico.
[…]
«Tutto bene?» gli chiese.
Ivano si riscosse dal suo stato di astrazione, e al commissario sembrò imbarazzato per la sua percepita assenza.
[…]
Scosse la testa, Ivano.
«No, commissario, non va tutto bene. Proprio per niente», e nel dirlo si meravigliò lui stesso della sincerità con la quale aveva risposto a un interrogativo così generico […].
Non gli venivano le parole. Era la prima volta che si trovava a espellere quel fiume di lava che da qualche giorno lo aveva invaso.
Si mise la mano in tasca e tirò fuori un foglietto ripiegato che, da quando gli era stato consegnato, aveva letto e riletto decine e decine di volte.
Lo diede a Buonvino, senza dire nulla.
[…]
Il commissario spiegò il foglio temendo di conoscerne il contenuto.
C’era infatti il nome di una clinica, e le denominazioni stampate sopra erano quelle che aveva paura di trovare […].
E porc… vi pare normale che un uomo con una prognosi infausta sulle spalle se ne vada in giro “da qualche giorno” con in tasca il referto medico spiegazzato?! Mica è una fotografia dei nipotini, che portiamo sempre nel portafoglio per mostrarla con orgoglio agli sconosciuti in fila alle Poste, no? Una sentenza di morte, perché in sostanza di questo si tratta, è qualcosa che a malapena vogliamo toccare, ci fa paura e istintivamente la evitiamo, cerchiamo di allontanarla. Che è ’sto sbandieramento? D’accordo, voi vi rifate alla mia premessa seria e mi obiettate che magari in realtà sono andate proprio così le cose. Sì, magari è successo, magari è stato un caso, diciamo, fuori norma, però l’ho fatto presente tante volte: la realtà è quello che è, non si tratta di un’opera d’arte! Quando decidiamo di comporre un’opera artistica, al massimo possiamo ispirarci a fatti reali, ma occorrono sempre aggiustamenti! Perciò, no, Ivano che ha carta d’identità, patente, foto della donnina nuda, scontrino sbiadito, bollino Chiquita e referto medico a portata di mano, nun se pò sentì!
Ma va bene, non voglio farla troppo lunga, lasciamo perdere come Buonvino scopre la grana. Anche perché, in effetti, il vero problema è che, ancora una volta, questa sottotrama è introdotta e poi abbandonata! Ivano viene sostanzialmente dimenticato, e di lui, nel resto del romanzo, si parla pochissimo. Non solo, quando il romanzo si ricorda che c’era pure quella roba in sospeso, il tono si fa all’improvviso molto distaccato, diventa quasi pragmatico, oserei dire. Leggiamo infatti di Buonvino che si informa sulle condizioni dell’amico e che discorre con i figli di quest’ultimo, ma non c’è mai una puntuale e minuziosa esposizione delle emozioni del nostro protagonista (o degli altri personaggi, per quel che vale). Esaminate questo stralcio:
Tutte le mattine, Buonvino passava al chiosco per sapere come stava il suo gestore. I figli […] lo informavano sempre in modo dettagliato sull’evolversi della malattia del padre.
Quel giorno, gli disse il più piccolo, erano andati a fare un’importante visita di controllo con il primario. Anche i medici lavorano l’ultimo dell’anno, pensò Buonvino.
Non se la sentivano di tenere il bar aperto, anche perché non si erano messi d’accordo […].
Andrea [il figlio più giovane di Ivano] aveva disse al commissario che il padre stava facendo gli esami, e presto lo avrebbe informato sui risultati.
Buonvino, conclusa la telefonata, si rese conto che quel 31 dicembre sarebbe trascorso nella più affascinante e contraddittoria delle condizioni umane: l’attesa.
[…]
Cinque minuti dopo il telefono squillò: era Riccardo, il primogenito di Ivano, che lo informava dell’esito del primo ciclo di esami fatti dal padre, un esito confortante.
[…]
[R]isultava che la malattia di Ivano si era stabilizzata, e forse era addirittura in lieve regressione. Segnali incoraggianti, che contrastavano la sensazione di precipizio ingovernabile con la quale Ivano stesso aveva raccontato la sua malattia a Buonvino. «Non ci danno troppe speranze, ma neanche ce le tolgono. Anzi. Sono prudenti, ma ora più fiduciosi di prima. Mi sembra una buona notizia, vero, commissario?»
Nel tono di Riccardo c’era quella meravigliosa fragilità, di nuovo il senso dell’attesa, che possiede chi non ha troppa esperienza […].
Buonvino stava comunicando la buona notizia ai suoi agenti – che, come lui, erano preoccupati per Ivano – quando, dopo aver bussato, entrò Ginevra Robotti.
Ora, se non conoscessi il Maestro (ma non lo conosco affatto), dopo un brano simile penserei che sia in effetti un androide killer venuto dal futuro. Cioè, la freddezza con cui il testo espone la malattia di Ivano è allucinante. I figli dello sfortunato informano Buonvino che il padre è andato a fare un’importante visita di controllo, e Hugh Grant che fa? Anziché mostrare un minimo, giusto un minimo, d’ansia e di apprensione, come farebbe qualunque essere empatico, il nostro eroe trova curioso che i medici lavorino l’ultimo dell’anno. Ehi, bambini (o adolescenti, giovani adulti, boh, che cazzo ne so), lasciate perdere per un attimo vostro padre, avete mai pensato che quelli dell’ospedale lavorano durante le feste? Eh, eh, eh, ma tu guarda, che roba strana!
E poi, ovviamente, il nostro vira su confuse osservazioni pseudofilosofiche a proposito del tempo, della condizione umana, quelle solite balle lì. Capisco che per un politico di lungo corso sia incredibilmente affascinante scoprire che c’è della gente che lavora… che lavora l’ultimo dell’anno, ecco… ma il nostro Maestro non poteva per un attimo smettere i panni del pezzo grosso, per provare a vedere il mondo dalla prospettiva della classe operaia? Naaaaah…
Infatti, chiusa la prima telefonata, ne arriva un’altra, e… e niente, di nuovo encefalogramma piatto. Ouch!, Buonvino ha appena scoperto che Ivano può sperare di guarire: è… è una gran bella notizia, di quelle che ti fanno tirare un sospiro di sollievo, giusto? Sì, ma mica vediamo il commissario mostrare qualche genere di emozione, macché! Tutto ciò che fa è mettere al corrente della notizia i suoi sottoposti, e immediatamente l’attenzione si sposta su qualcos’altro (cioè sulla Robotti, proprio “qualcos’altro”, se avete capito l’antifona). Da notare inoltre che i bagonghi di Villa Borghese si sono ormai totalmente nullificati, sono stati assorbiti dalla carismatica personalità del loro “leader”. Non sono più delle persone, sono delle macchine: non si può patteggiare con loro, non si può ragionare con loro, non sentono né pietà né rimorso né paura, e niente li fermerà prima che abbiano votato tutti il PD! Ehm, scusate, mi sono fatta trasportare. Comunque, nei precedenti romanzi nessuno della squadra sembrava cagarsi troppo il nostro sfortunato barista, invece adesso sono di punto in bianco tutti quanti “preoccupati per Ivano”, proprio “come l[v]i”, il loro guru. Cioè, io direi che sono “[NON] come lui, preoccupati per Ivano”, ma tant’è.
Giusto per spicciarmi un po’, e per riassumere quanto scoperto finora, io capisco che la faccenda di Ivano sia un tributo indiretto a un amico scomparso, però, ai fine della qualità artistica del romanzo, non la si poteva gestire leggermente meglio, magari facendone qualcosa di più che un’aggiunta posticcia? Almeno, Buonvino non poteva fingere di interessarsi un minimo alla sorte del suo amico? No, perché così com’è il testo, sembra proprio che non gliene importi un tubo. E se non importa a lui, perché mai dovrebbe importare a noi?
Ma una crema antismagliature?
Ebbene, io propongo di scavalcare i triangoli (o quadrilateri) amorosi e gli amici morenti, sennò c’è il rischio che la noia ci distrugga. Ehi, sapete cosa? Il romanzo stesso accoglie la mia proposta, LOL! Veltroni, pressappoco a un terzo di Buonvino e il circo insanguinato, deve aver cominciato a dubitare che una trama sostanzialmente priva di eventi (e di personaggi, perfino) avrebbe potuto incrinare leggermente la sua fama di Maestro del thriller, perciò ha optato per un repentino e deciso cambio di rotta. O forse si stava annoiando lui stesso, non lo so. Fatto sta che arriva il bel casotto: sì, il delitto che tira su il morale!
Allora, succede che Buonvino e consorte, ancora in compagnia di Roberto e della nuova fiamma di quest’ultimo, organizzino l’ennesima uscita a quattro. Localino trendy? Pfui!, no, loro sono degli intellettuali, e anche politicamente schierati: vanno al circo. Periodo natalizio, bell’atmosfera, nessuno che gli uccide il mood, e… oh-oh, fermi! C’è l’esibizione della giovane acrobata Manuelita e di suo marito Alberto.
No, no, no! Qualcosa va storto: durante lo spettacolo, Manuelita cade, batte la testa sul perimetro della rete di sicurezza, si spezza l’osso del collo. E muore. Il pubblico è sgomento, agli occhi di tutti è una tragica e orribile fatalità. Fermi, fermi, fermi, l’odore del sangue ha risvegliato Buonvino dalla sua apatia catalettica: ah-ah, il nostro eroe è in preda a una frenesia poliziesca, altro che incidente, quella a cui ha assistito è una messinscena bella e buona! Manuelita è stata uccisa. E lui scoprirà la verità.
Bene, lettori, mi fermo un attimo anch’io, perché so che inevitabilmente vi frulla in testa una domanda. Chiaro, gli spettatori del circo sono una massa di proletari deficienti (sappiamo bene dai precedenti romanzi che i proletari sono degli idioti), e Buonvino invece è acutissimo (quando ha accesso a telecamere di sorveglianza e a colpevoli che si incastrano da soli), ma… qual è il sottile motivo per cui il commissario è in fermento? Cos’è sfuggito agli altri, cos’è che lui invece ha visto?
Eh, eh, eh… mi meraviglio di voi… cos’è che ha visto… insomma… ehm… boh?! Vi giuro, non c’è nessun segno plausibile che possa far sospettare un omicidio. Mah, essendo una proletaria (senza figli) può anche darsi che sia cretina io. Però, ecco, giudicate voi: ad esempio, leggiamo che Buonvino, poco prima della morte di Manuelita, nota una smagliatura nella rete di sicurezza…
Durante la presentazione del numero, un gruppo di inservienti aveva montato in fretta e furia una rete, di cui il commissario fece in tempo a cogliere una smagliatura, proprio nella parte più vicina al suo posto in platea.
D’accordo… e quindi? Mica la rete si è squarciata, Manuelita è morta perché ha battuto la testa sul cordone, è caduta malamente dal trapezio! Cosa c’entra la smagliatura? Sarà magari un segno di incuria, forse si può imbastire un caso per negligenza o che so io, ma ci vuole molta fantasia per trovare un’immediata connessione con la tragedia accaduta. Che, niente niente Hugh Grant è diventato complottista, s’è messo a leggere di straforo le rivistacce di Olivieri?
Vabbè, c’è dell’altro. Buonvino è scettico soprattutto perché gli sembra sospetto che si siano verificate contemporaneamente “tante circostanze casuali e letali”:
Buonvino adesso era in mezzo alla pista, con il naso all’insù. Guardava e cercava di capire come fosse stato possibile che si sommassero tante circostanze casuali e letali: la mancata presa di Alberto e il precipitare di Manuelita proprio sulla parte rigida della rete, tesa poco prima dagli inservienti.
Ma dai: queste sarebbero le “tante” circostanze? Sono due, porca vacca, manco le classiche tre è riuscito a trovare! Non dimentichiamo, inoltre, che le acrobazie circensi sono difficili da eseguire, e se è vero che Alberto potrebbe aver mancato la presa apposta, è altrettanto vero che a volte sbagli del genere accadono! E, aggiungo, è molto più probabile che si tratti di un errore semplice, piuttosto che di un “errore” deliberato. Sul punto dell’impatto, poi, davvero mi cadono le braccia: cioè, non solo quello dipende dalla traiettoria della caduta (e quindi l’unico mistero è cos’abbia di misterioso), ma in più, considerandolo sospetto, Buonvino entra in conflitto con sé stesso, e con la sua originaria osservazione a proposito della smagliatura! Insomma, il testo lascia intendere che il nostro eroe prima vede il piccolo squarcio e pensa che sia un indizio, pensa che la rete sia stata montata male, pensa che non potrà proteggere da una caduta; in seguito, riflette sul fatto che Manuelita precipita praticamente al di fuori della rete, e, ehi!, guarda che caso, poteva cadere ovunque, poteva cadere sulla rete difettosa, e invece cade proprio nel punto più duro, dove si rompe il collo. Eh sì, è strano che la poveretta non sia caduta sulla rete manomessa, che avrebbe dovuto ucciderla, e che sia invece caduta in un altro punto, che poi l’ha uccisa. Gatta ci cova, avoja!
Complottista paranoico
A me sembra proprio che il nostro commissario si stia arrampicando sugli specchi, pur di vincere la monotonia in cui è intrappolato. No, non c’è verso di trattenerlo, Buonvino finisce per fissarsi sull’idea che Alberto abbia appositamente aiutato Manuelita a volare in cielo, spiaccicandola a terra. Ribadisco, non c’è un vero motivo per crederlo, tuttavia… eh, lo ammetto, non è una tesi campata in aria. Infatti, lo dicono le statistiche, quando una giovane donna muore di morte violenta, in molti casi è stata uccisa dal compagno, o dell’ex. E da un punto di vista puramente teorico, è altresì possibile che Alberto, esperto acrobata, abbia in qualche modo calcolato la caduta, facendo sì che la moglie rovinasse sul solido cordone.
Posso dunque chiudere un occhio sulle ragioni di Buonvino e prendere per buona la sua idea, tanto non ce n’è una migliore da cui partire per sviluppare l’aspetto… thriller… del libro. Ovviamente, concedere qualcosa al Maestro è pericoloso, e infatti eccallà che arriva la stronzata: il nostro commissario sospetta di Alberto e… e ad Alberto stesso chiede aiuto per le indagini:
«[…] Nella rete mi pare di aver visto una smagliatura, lei come se la spiega?»
«Quella rete è perfetta; mi creda, commissario, potrà esserle sembrata una smagliatura, ma le garantisco che non lo è.»
«D’accordo, ma oltre alle attrezzature, Alberto, mi interessa capire se tra lei e sua moglie c’era totale sintonia. […]».
Ehi, amico, quella smagliatura lì l’hai fatta tu? Ah, capito. Ma che per caso ce l’avevi con tua moglie?
Lettori, cioè… LOL! È mai possibile che un detective si rivolga così al suo primo sospettato?! È come chiedere a un pollo di tirarsi il collo e di infilarsi da solo nel forno! Un simile scambio di battute avrebbe avuto senso se Buonvino fosse già stato messo a parte di forti indizi o direttamente di prove: interagirebbe con Alberto per mettergli pressione e coglierlo in fallo. Un po’ come il tenente Colombo, che si finge uno scemo e prende i cattivi per sfinimento.
A rigore, c’è anche un altro motivo per cui un detective può interagire col suo bersaglio, e in tal caso non è necessario avere per le mani delle prove. Voglio dire che il detective può “saggiare il terreno”, facendo domande mirate e valutando l’atteggiamento del sospettato: ad esempio, se quest’ultimo diventa improvvisamente nervoso, o reticente, o balbettante, o al contrario se ostenta un’eccessiva sicurezza, può davvero valer la pena concentrare su di lui gli iniziali sforzi investigativi.
Ma il punto è che Buonvino fa le sue domande ad Alberto proprio per capirci qualcosa! Non lo mette alle strette (d’altronde non ha alcuna prova) e non riflette per nulla sul suo comportamento (il testo non ci dice nulla sul modo in cui reagisce l’acrobata). Tra l’altro, dopo la risposta lapidaria di Alberto, Buonvino placa la sua curiosità, e la smagliatura misteriosa non sarà mai più menzionata per tutto il romanzo. Capito, lettori? Il sospettato dice che la rete è a posto: va bene, allora è a posto. Lui è un circense, è un esperto, dopotutto.
Attenzione, però: ho detto che di Hugh Grant si è placata la curiosità, non i sospetti. Il nostro rimane dunque convinto che Alberto si sia sbarazzato di Manuelita… almeno finché non si mette a ciarlare con un celebre porteur, Rony Vassallo. Oh cazzo!, ci risiamo, costui esiste realmente! Sentite, non voglio avere grane come l’ultima volta, pertanto metto subito le cose in chiaro: anche se nel nostro mondo c’è un Rony Vassallo, e anche se a lui è ispirato l’interlocutore di Buonvino, il Rony Vassallo del romanzo rimane un personaggio fantastico, e qualunque bestialità possa dire in seguito sarà rivolta soltanto a quest’ultimo, in quanto creazione letteraria, e NON alla sua fonte di ispirazione reale. E spero proprio che questo disclaimer sia sufficiente.
Ad ogni modo…
[Rony Vassallo] «[…] se il porteur si accorge che l’esercizio non è stato fatto bene, non deve assolutamente toccare le gambe dell’agile, altrimenti la fa cadere male.»
[Buonvino] «In questo caso sembra proprio che non l’abbia sfiorata, eppure Manuelita è caduta male, sul cordone, e si è rotta l’osso del collo.»
[RV]«Purtroppo può capitare. Come con i domatori […].»
Oh-oh, lettori, sono certa che avete inteso perfettamente, nondimeno riassumo per voi: l’altissima autorità in materia spiega che Alberto ha fatto bene a non toccare Manuelita mentre questa era in caduta, e il fatto che la poveretta si sia comunque sfracellata è un’eventualità che “[p]urtroppo può capitare”. In pratica, Rony Vassallo sta educatamente invitando Buonvino ad andare aff******, lui e i suoi sospetti campati in aria. Noi avevamo già intuito che il commissarione si stava dannando per niente, mentre lui ci ha messo più di metà libro, però, ehi!, meglio tardi che mai, giusto?
Ebbene, Alberto sembra essere stato sostanzialmente… scagionato? Boh, non so se in effetti le vere forze dell’ordine lo mollerebbero così de botto, ma via, facciamo finta di crederci e passiamo oltre. Come presumo sia ovvio per voi, tolta di mezzo la pista del marito omicida, che era anche l’unica pista, è opportuno lasciar perdere il “caso” e andare a dormire. Figuriamoci, col cacchio che Hugh Grant si lascia fregare, lui lo inchioderà quel delitto, anche se continua a fingere di essere un incidente:
Quell’incidente non poteva che essere un incidente, ma a lui sembrava nascondesse qualcosa di più, qualcosa di misterioso.
Ah, ah, ah, Buonvino è sempre più fuori di testa, lettori! Nemmeno si è accorto di essere diventato un complottista paranoico di prima categoria, lui che ha sempre fatto la morale contro i creduloni pazzoidi del web! Mi sa che l’ambiente del suo commissariato, ormai del tutto ridotto alla Family di Charles Manson, l’ha inesorabilmente intossicato.
Personaggioni spiegoni
No, dai, davvero: io credo che Veltroni abbia sbloccato un nuovo tipo di giallo sperimentale. Una specie di giallo psichedelico e un po’ figlio dei fiori, in cui il detective ha percezioni extrasensoriali o balle simili, va solo a sentimento, e le prove e gli indizi non servono più, oppure sono obliqui e sfuggenti, intersecanti diversi piani di esistenza.
Quello che voglio dire è che Buonvino e il circo insanguinato è un po’ una ciofeca anche per quel poco di thriller che vorrebbe propinarci. Il nostro eroe (e mi riferisco sempre a lui perché, ve l’ho accennato in precedenza, i suoi agenti sono praticamente spariti) indaga senza una ragione, e indaga… eh indaga demmerda, come al solito. Anzi, stavolta è più solito del solito: se ne sta fermo ad aspettare che vari soggetti lo raggiungano e gli raccontino come sono andate le cose. Credetemi, non fa nemmeno lo sforzo di andare a cercare i classici personaggi spiegoni, come accadeva ad esempio con il barbone di Buonvino tra amore e morte. No, no, sono loro che si mettono in moto, facendosi a volte annunciare dai minions del nostro commissario.
Ad esempio, in questa scena, Cecconi (cielo!, tra tutti, proprio lui? Che è, il “negro di casa” di Django Unchained?) informa Buonvino che un deputato di FDI chiede udienza:
«Commissario, mi scusi ancora, ma so che è sveglio. Qui c’è uno del circo che dice di avere una disperata urgenza di parlare con lei. Vuole sapere se domattina può venire in commissariato. Che gli dico?»
«Ma scusa, chi è?»
«Dice di chiamarsi Omar. È uno dei pagliacci. Anzi, uno dei clown…»
E, nei seguenti brani, altre macchiette di Villa Borghese fanno da tramite, in una sfilata di fenomeni da baraccone che si sa quando inizia e non si sa quando finisce:
«Che succede, Ginevra?»
«Mi ha cercato Aida, la compagna del lanciatore di coltelli. Ha detto che vuole parlarmi con urgenza. […]»
Quando si accese la luce sul telefono fisso, ormai una rarità, Olivieri disse: «Commissario, c’è il dottor Tamborini al telefono. […] Dice che non vi conoscete ma che lui vuole parlarle di una cosa riguardante il caso del circo.»
Ah, a proposito: “[a]nzi, uno dei clown”? Si vede che i sermoni di Buonvino sulla purezza linguistica sono molto ascoltati, eh?
Il ritorno del detective gore
Vabbè, almeno c’è lo spiegone definitivo e il romanzo si chiude. Seee, vi piacerebbe! È incredibile, ma gli stessi personaggi spiegoni non servono a un tubo, e l’indagine resta a un punto morto. Tanto per aggiungere ulteriore carne al fuoco e complicare il casino, accade che si ritrovi privo di vita il corpo di Raul, giovane equilibrista della compagnia circense…
Il corpo di Raul era in mezzo alla pista, appoggiato all’asse contro la quale Loris, il lanciatore di coltelli, scagliava le sue lame. Ai piedi, un lago di sangue.
Era davvero orrenda, la scena. A tenere il cadavere in posizione eretta era un coltello piantato all’altezza del cuore. Un coltello al quale sembrava aggrapparsi, serrata, la mano destra della vittima.
Il rigor mortis aveva fatto sì che quella mano non avesse lasciato la presa.
[…]
L’abito che Raul indossava era quello di scena, una tuta luminosa che ora, inzuppata di sangue, sembrava un oltraggio.
Il corpo era stato trovato da Aida, la moglie di Loris, che dalla sua roulotte aveva sentito improvvisamente il suono della marcia tradizionale del circo, quella classica, provenire a volume alto dalla pista.
Non capitava da giorni, le prove erano state sospese. Allora si era incuriosita ed era andata a vedere. Arrivata sul posto, era rimasta inorridita e aveva urlato a squarciagola per far accorrere qualcuno. Il ragazzo ancora rantolava, stava per tirare le cuoia.
[…]
A guardarla da quel sedile, la scena era davvero impressionante, anche senza la sua persino troppo ovvia colonna sonora. Un ragazzo, un bellissimo e sensibile ragazzo, con la testa piegata in avanti, la bocca aperta […], il cuore trafitto da un pugnale, colpito con tanta violenza da restare inchiodato al legno fragile della tavola di un lanciatore di coltelli, una pozza di sangue ai piedi […].
Eccola, la scena da guardare. La scena da comprendere.
Ahhh, eccolo lì! Adesso capisco! Ecco il gore! Pensavate di esservelo risparmiato? In effetti lo pensavo anch’io, perché se già il precedente capitolo della saga si era rivelato stranamente pulito, quest’ultimo è praticamente immacolato. Però no, niente da fare, il Maestro non ce la fa a trattenersi per un volume intero: almeno un po’ di splatter ce lo deve mettere. E, badate bene, tale splatter è assolutamente inutile, non vi venga il dubbio di essere voi che non capite!
Già, perché Raul non è mica stato ucciso: si è inequivocabilmente suicidato. E, no, non perché è lui l’assassino di Manuelita. Che cazzo c’entra quella scena, quindi, con il mistero che il libro ci ha proposto?! Nemmeno è un depistaggio, ossia un filler che allunga un po’ il brodo: Buonvino infatti scopre subito, SUBITO!, ossia proprio nelle righe immediatamente successive al brano che vi ho riportato, che la morte dell’equilibrista è un suicidio. No, scusate, è ovvio che non lo scopre da solo: glielo dice la Scientifica, LOL…
Eccola, la scena da guardare. La scena da comprendere.
Il personale della Scientifica stava lavorando già da un po’ quando Frascoli si avvicinò a Buonvino e si sedette accanto a lui. Per un po’ tacque, come se volesse lasciare al collega la possibilità di abituarsi a una presenza umana che spezzava la solitudine in cui aveva voluto immergersi.
[Frascoli] «Caro vecchio, tu non mi crederai, per quello che sto per dirti. Pare incredibile, ma sembra davvero essersi ucciso da solo. […]»
Lo splatter, lettori, lo splatter: quella è la chiave di tutto.
Insomma, rileggete la descrizione della morte di Raul: vedete quanto il Maestro sta in fissa coi dettagli più truculenti? Ci tiene così tanto a parlarne, che finisce per ripetersi: sottolinea per ben due volte che la scena è brutta a vedersi (“[e]ra davvero orrenda, la scena”, “la scena era davvero impressionante”), che c’è tanto sangue a terra (“[a]i piedi, un lago di sangue”, “una pozza di sangue ai piedi”), e che Raul ha un pugnale conficcato nel cuore (“un coltello piantato all’altezza del cuore”, “il cuore trafitto da un pugnale”).
A essere sinceri, però, la vera chicca del brano è un’altra: vogliamo soffermarci un momento su quel “il ragazzo […] stava per tirare le cuoia”?! Ma… ma Maestro, ma cosa mi combina?! “Tirare le cuoia”, cito dalla Treccani, è un’espressione “d’ambito d’uso familiare con sfumatura dispregiativa”. E quando non è usato in senso dispregiativo, è usato con tono scherzoso, come fa Giuseppe Parini (cito ancora dalla Treccani) in Poesie di Ripano Eupilino ( “[…] Manzoni, vorre’ mo’ che mi dicessi / qualche bel modo di tirar le cuoia, / ma qualche modo che non mi spiacessi […].”). In breve, “tirare le cuoia” o si usa per disprezzare, o per scherzare. Molto adatto, in un momento tragico e coinvolgente! Vabbè, vedo che l’andazzo è sempre quello della Viganò che googlava “in allegria” ai piedi di un “corpo sezionato”, durante l’indagine di C’è un cadavere al Bioparco… e poi che tiro in ballo a fare la Treccani, lì il Maestro è (giustamente, per carità) osannato!
Tranquillo bro, era un incidente
Sentite, basta, stiamo girando in tondo. Do un taglio netto al nodo gordiano che è diventata la trama di Buonvino e il circo insanguinato, e vi rivelo direttamente come va a finire. Sì, spoiler.
Ebbene, dopo aver pigramente ascoltato i personaggi spiegoni, dopo aver fatto domande da vecchietto petulante a ciascun membro della compagnia circense, dopo aver riflettuto, dopo aver ponderato, dopo aver analizzato tutte, ma proprio tutte le informazioni in suo possesso, Buonvino conclude che… che Manuelita è morta per un incidente! Ossignore…
«So che molti di voi si sono chiesti in questi giorni, e forse anche ora, perché ci stiamo accanendo per capire cosa sia successo sotto questo tendone la sera dell’incidente. In effetti, ne sono testimone, si è trattato proprio di un incidente. Manuelita, alla quale, povera ragazza, rivolgiamo un pensiero, non è stata vittima di colpi di pistola, di coltellate, e neanche di avvelenamento. È caduta, e la fatalità, diciamo la fatalità, ha voluto che il suo collo urtasse contro il cordone, l’unica componente rigida della rete che ogni sera Raul e Bruno dispongono sempre allo stesso modo.
«Un incidente. Purtroppo capita quando si fa un lavoro pericoloso, difficile e così tanto ignorato, a tutti i livelli. […]»
Ma… ma eravamo partiti da quello! Tutti noi, e intendo tutti noi esseri umani reali e personaggi di fantasia, non avevamo dubbi che si trattasse di una fatalità! Ma chi cazzo gliele suggerisce ’ste idee al Maestro?
I primi ringraziamenti vanno a […] Chiara Valerio […].
Oh, occhei.
Da, seriamente, suppongo che Veltroni volesse sbalordirci con un finale a sorpresa, solo che… la sua idea di “sorpresa” è completamente sottosopra.
Innanzitutto, perché questo è già il secondo romanzo consecutivo, consecutivo!, che si conclude con un “non delitto”: e i “non delitti” andrebbero centellinati, all’interno di una serie crime. Intuite da voi, una simile soluzione disattende le nostre aspettative, quando ci accostiamo a una storia che sappiamo essere un thriller. È una sorpresa, certamente: e come tutte le sorprese, ha successo se… se non è la norma, no? Altrimenti, non ci stupisce più, anzi inizia a seccarci, ché in fondo ci dedichiamo ai thriller con la bramosia di vedere detective dare mazzate ai cattivoni.
In secondo luogo, il “non delitto” non funziona per niente, nella trama di Buonvino e il circo insanguinato. Certo, è ancora un problema con la sorpresa: questa si ottiene se il pubblico, ponderando sulle circostanze dell’evento mortifero raccontato nel giallo, è indotto a dare per scontato che la vittima sia effettivamente stata uccisa. Va bene, vi serve un esempio.
Avventura sul set, dell’anime Detective Conan. La puntata ruota intorno alla morte del signor Fujie, ritrovato sul pavimento, con un coltello conficcato nella schiena. Ecco, il giappo è steso a terra… il pugnale è dietro… ci sta: è un omicidio. Nope! Conan scopre infatti che Fujie si è suicidato, lanciandosi all’indietro su un coltello congelato all’interno di un blocco di ghiaccio. Il finale a sorpresa, in questo caso, fa il suo lavoro, appunto perché le circostanze iniziali ci guidavano verso ipotesi molto meno esotiche.
Ma Buonvino e il circo insanguinato?! C’è una trapezista che, davanti a una platea gremita, esegue un esercizio pericoloso, lo sbaglia, cade sul punto peggiore della rete e muore. Niente coltelli, niente armi, niente dettagli effettivamente fuori posto. È un incidente, caspita! Casomai, sarebbe stato uno shock se si fosse rivelato un omicidio: che curiosità, che emozione, scoprire insieme a Buonvino piccole note stonate, che infine compongono una sinfonia delittuosa! Ah, ah, ah, ah, no, non ci siamo… la tipa è stata solo sfortunata, d’accordo? Avevamo ragione noi. Sin dall’inizio.
Il prestigiatore
Comunque, secondo me, neppure il Maestro è stato troppo soddisfatto dell’epilogo. Penso questo perché devo, devo!, trovare una spiegazione al fatto che Buonvino e il circo insanguinato non si chiuda con l’indagine flop di Hugh Grant: no, dal nulla e totalmente a caso, spunta un cattivissimo “pseudoassassino”. Avete capito bene.
Allora, Buonvino ammette (perché costretto) che Manuelita è morta per volere divino, tuttavia… tuttavia lui deve averla vinta comunque, e così a ’sto punto si convince che qualcuno ha compromesso il benessere psicologico della ragazza con il potere “delle parole e dei pettegolezzi”. Praticamente, le malelingue che fanno morire a la gggende. E sì, accade, verissimo: quando qualcuno si suicida per non sentir più le gravi dicerie sul suo conto. Però Manuelita non si è suicidata, ve lo ricordo, giusto per. Bene! Ormai totalmente scollegato dalla realtà e dal buonsenso, perso in un mondo fatto di malocchio, fluidi negativi e vampiri energetici, il nostro eroe ci regala uno spiegone finale allucinato e allucinante:
«C’era un crocevia in cui confluivano tutte queste informazioni. Qualcuno al quale veniva riferito ogni spiffero, ogni evento, piccolo o grande, che interessava questa comunità. Ma colui o colei che riceveva tutte queste informazioni non ne faceva tesoro per la sua morbosa curiosità, ma le usava per fare del male.
[…]
Tra voi c’è qualcuno che da Alberto ha saputo che lui e sua moglie non si sentivano più attratti fisicamente, e forse non erano neanche più innamorati. E c’è qualcuno, tra voi, che è venuto a sapere, grazie a una confidenza di Aida, che Raul corteggiava Manuelita. E c’è ancora qualcuno, lo abbiamo scoperto da un messaggio inviato da Raul su Whatsapp, che è venuto a conoscenza del fatto che lui e la ragazza avevano fatto l’amore. Questo qualcuno è sempre la stessa persona…»
Buonvino tacque, aspettava. Nella pista era sceso il gelo.
Finché si alzò una mano.
Quella di Bruno [il prestigiatore].
«Sono io quella persona, commissario.»
«E perché non mi ha detto nulla quando l’ho interrogata?»
«Mi divertiva vedere se riusciva ad arrivarci. Non ho mai avuto grande fiducia nella capacità deduttiva degli investigatori.» Disse questa frase mentre si sfilava, con estenuante lentezza, un paio di anacronistici guanti neri dalle mani.
«Si è sbagliato, Bruno. Pensava di essere più intelligente di noi, come spesso è portato a ritenere chi non lo è.
[…]
Mi sono convinto che lei abbia persuaso Manuelita di essere incinta, che l’abbia trascinata nella disperazione.
[…]
E so anche come ha fatto, perché studio, approfondisco. Lei ha usato quello che in letteratura si chiama “effetto Forer”, e che è stato ribattezzato, non a caso, “effetto Barnum”. Una modalità di comunicazione che prende il nome da uno dei fondatori del circo moderno. Cito come lo descrivono nei manuali, così capiamo tutti: “L’effetto Forer è un fenomeno per il quale ogni individuo, posto di fronte a un qualsiasi profilo che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso ritenendolo preciso e accurato, senza accorgersi che quel profilo è abbastanza vago e generico da adattarsi a un numero molto ampio di persone.
[…]
Lei [rivolgendosi a Bruno] ha voluto abbindolare persone fragili. Non so se esista un reato per questo. E non credo che lei volesse o potesse anche solo immaginare la morte di Manuelita. Forse […] è stata una fatalità. Magari Manuelita quella sera ha deliberatamente deciso di cadere, di far fallire l’esercizio […]. E mi sono convinto che il litigio che Omar ha ascoltato non fosse tra Manuelita e Alberto, ma con lei. Quella frase che una voce di uomo […] avrebbe pronunciato: “Non è giusto che tu faccia così, te la farò pagare, vedrai. Stai attenta. Molto attenta”, per me era la sua voce. Ma mi resta una domanda. Perché? Quale vantaggio trae da quello che ha combinato? Che soddisfazione prova nel vedere o, peggio, nel provocare l’infelicità altrui?»
[…]
«[…] La risposta è semplice, è la stessa data da un ragazzo che qualche anno fa, a Torino, uccise alcuni suoi coetanei perché sorridevano, solo perché sorridevano. Nel mio caso, perché non sopporto la felicità altrui, perché sono cattivo, perché sono figlio di questo tempo di merda. E poi vuole sapere la verità? Io odio i giovani, con tutte le mie forze. Specie quelli sereni, quelli che hanno un futuro squadernato davanti a sé. […] Non sono cattivo, sono incompreso. Sono deluso dalla vita. Ho fallito quando invece avrei dovuto primeggiare. Ma non è colpa mia. È che mi sento straniero in questo mondo falso e ipocrita.
[…]
Commissario, ma è possibile che lei, e tutti voi che avete potere, non vi accorgiate di quello che è davanti agli occhi di chiunque? Possibile che non vi accorgiate che stiamo male?
«Che stiamo tutti male?»
Il prestigiatore?! Ma… ma chi gliele suggerisc…
I primi ringraziamenti vanno a […] Chiara Valerio […].
Basta, basta, ho capitooooo!
Ooof, maronn! Il pezzone è un tale casino che non so da dove cominciare. È peggio delle più rivoltanti e scadenti soap opera del Terzo Mondo, praticamente tutte quelle italiane.
Occhei, ci provo. Ehm… posso subito far presente che è ancora una spiegazione che non spiega un cacchio? Sappiamo bene che, in un giallo, il monologo finale del detective ha una funzione ben precisa: non è tanto un “who is who” del romanzo, il suo compito è manifestare il processo deduttivo con cui il detective è riuscito a ricostruire la catena di indizi e di prove. Ehi!, Buonvino è rimasto a poltrire, non ha raccolto alcun indizio, di conseguenza non può sviluppare nessun processo deduttivo! E infatti, il nostro eroe non ha mica spiegato come ha risolto il caso: se ci pensate, sta in realtà esponendo una semplice congettura, peraltro molto personale e incerta (“[m]i sono convinto che lei abbia persuaso […]”, “[e] mi sono convinto che il litigio […]”, “[…] per me era la sua voce”). È il finale, cazzo!, Dovrebbe esserci qualcosa in più che un “a me mi sembra che tipo è andata così”! Magari è un finale amaro, magari il cattivo è diabolico e al detective mancano le prove che in tribunale porterebbero a una condanna sicura: tuttavia, devono esserci delle prove di altro tipo, a sostegno di ciò che dice l’eroe. Dobbiamo sapere che lui ha scoperto la verità, dobbiamo avere la sua stessa certezza, quand’anche non possa difendere la sua tesi davanti a un giudice. Il finale, insomma, non ammette più congetture con fondamenta traballanti o addirittura assenti.
A Buonvino, almeno, richiederei di argomentare con indizi concreti e inferenze impeccabili perché, secondo lui, sarebbe stato Bruno a minacciare Manuelita: “per me era la sua voce” non basta a rendere convincente l’idea, sorry!
Passiamo oltre, perché vorrei soffermarmi un attimo sull’effetto Forer (o effetto Barnum, come giustamente riporta il romanzo). Che cos’è? Be’, Veltroni lo spiega molto bene, così bene che temo Wikipedia gli abbia fottuto il brano per farci una pagina enciclopedica. Nondimeno, la sua definizione è un po’ troppo tecnica, perciò provo a offrirvene una alternativa, priva di quello che Joyce definiva “autentico fetore scolastico”. Ecco, l’effetto Forer è un fenomeno psicologico che ci spinge a identificarci in una descrizione che crediamo fatta su misura per noi, ma che in realtà è estremamente generica e adattabile a chiunque. Insomma, avete presente quando l’oroscopo vi dice che “oggi affronterete delle sfide”? Appunto.
Ora che l’effetto Forer sta nella vostra mente cristallino come un diamante, è spontaneo porsi una domanda: che… cazzo… c’entra… con… ’sta storia?! Quand’è esattamente che il prestigiatore avrebbe usato contro Manuelita un profilo “abbastanza vago e generico da adattarsi a un numero molto ampio di persone”? Al contrario, da quel che si evince, Bruno si rivolge a lei in maniera molto precisa. Per esempio, Buonvino sostiene che il prestigiatore l’abbia persuasa di essere incinta, e… e vi pare un’informazione vaga e generica? Avete mai letto qualcosa come “bilancia: oggi rimarrete incinte”?! E ancora, pare che il prestigiatore abbia minacciato Manuelita dicendole: “Non è giusto che tu faccia così, te la farò pagare, vedrai”. Informazione generica e adattabile a un numero molto ampio di persone, sì? Semmai, il cattivone avrebbe potuto dire a Manuelita qualcosa come: “Hai trascorso un periodo difficile e di gran confusione, hai commesso degli errori di cui subirai le conseguenze nelle settimane a venire”.
Infine, esaminiamo la confessione del prestigiatore. Eh, eh, la confessione è un classico: è un po’ un espediente da noob, tuttavia non è da osteggiare a priori, di per sé non rovina un giallo. Non lo rovina, a patto che avvenga in circostanze ben precise: in particolare, è bene che essa giunga dopo che il detective ha intrappolato il colpevole. L’assassino, sapendo di aver perso, decide di conservare la propria dignità consegnandosi spontaneamente alla giustizia. Oppure si alleggerisce la coscienza. Oppure, ancora, si rifugia nella confessione stessa, che diviene per lui una sorta di “dolce ricordo”.
Vabbè, avete già capito perché non ha senso che Bruno confessi: Buonvino non ha niente in mano! Perché mai il prestigiatore dovrebbe sentirsi con le spalle al muro? Gli sarebbe bastato dire: “Cazzate!”, e Buonvino e il circo insanguinato ne sarebbe uscito molto meglio. Oltretutto, non è nemmeno chiaro se è stato commesso un reato, porca vacca!
Che poi, ma l’avete letta attentamente, questa confessione? Non ha assolutamente senso, è un delirio! Il prestigiatore dice di aver esasperato Manuelita perché odia la felicità altrui, odia i giovani, “specie quelli sereni”, ma… ma Manuelita non era né felice né serena! Infatti, nel corso della trama, ci viene ricordato spesso che Manuelita era provata dalla crisi che stava affrontando la compagnia, che era esasperata da una “gravidanza isterica”, che la tormentava la crisi del suo matrimonio. E poi, più che per tutto questo, era depressa per la morte improvvisa della madre, avvenuta soltanto due mesi prima:
Ma perché Manuelita era così triste? Per la morte della madre, che per lei è stata una tragedia, come per tutti voi.
[…]
Ma per Manuelita era la madre, molto di più. Era la sua valvola di sicurezza, la sua confidente, la sua guida. Quando è mancata, in quelle circostanze strane e dolorose, le è caduto il mondo addosso. Manuelita stava vivendo un momento difficile anche con il marito.
E questa sarebbe una giovane felice, serena e con “un futuro squadernato davanti a sé”? Il prestigiatore non solo è confuso sul suo stesso modus operandi, ma non riesce nemmeno a capire quali sono le vittime su cui riversare i suoi impulsi da… da serial killer?
D’accordo, basta, saltiamo alle conclusioni.
Berlinguer Veltroni ti voglio bene
Dunque… sapete che c’è? Quella tirata finale del prestigiatore mi ha fatto riflettere. Lui sta male. Stanno tutti male. Al governo ci sono i ladri, le pensioni arrivano sempre in ritardo, i giovani bestemmiano! Occhei, d’accordo, non so se era riferita a queste cose da vecchio, magari si riferiva ai circensi, che non sono più popolari, o agli esseri umani tutti, che nascono solo per soffrire. Boh.
Io però mi sono convinta che fosse un po’ una sculacciata a noi giovani. Che poi, giovane… trent’anni, il prossimo! Insomma: Buonvino e il circo insanguinato mi ha fatto venire un po’ le paranoie. I vecchi che stanno male per colpa dei giovani, i giudizi che feriscono, “creator digitale” fra le brutte parole… ripeto… Maestro, ma che ce l’avete con me?!
Lettori, spero vivamente di no! Soprattutto perché ho paura che l’indiscusso Signore del Thriller possa scoraggiarsi e troncare di netto le avventure di Buonvino. E, credetemi, questa non è tanto una paranoia, sono ormai due titoli di fila che noto una certa apatia e fiacchezza, nella prosa del Maestro. No, no, no, faccio gli scongiuri ché il Maestro non smetta di scrivere, come invece scherzosamente mi auguravo facesse, ai tempi del Bioparco!
Sì, anche se Veltroni e io siamo come Grattachecca e Fichetto (sapete chi è lui, dei due), quando si tratta di cose letterarie, io gli voglio bene. La mia introduzione non era una presa in giro, sono stata seriamente preoccupata. La serie di Villa Borghese è davvero assurda, ma ciò non toglie che io mi diverta sempre un fottio, quando mi capita per le mani un nuovo episodio. Rileggo anche quelli vecchi, ah, ah! Sì, che male c’è nello scrivere stronzatone così brutte che… ehm… belle? Io non compongo queste recensioni con astio nei confronti di Veltroni. Cerco di esporre le osservazioni più tecniche e oggettive possibili, provando a far ridere con iperboliche perculate. Il mio scopo non è distruggere l’autostima dello scrittore: al più, voglio moderare certe entusiaste esaltazioni dell’opera, al contempo sdrammatizzando la situazione.
In effetti, io credo che autori come Veltroni, o Marina Di Guardo, o chi so io, non siano un problema per la letteratura (e in generale per la cultura) italiana. Piuttosto, a impensierire è il clima di fastidiosa e intellettualistica seriosità che grava su ogni tematica artistica, nonché un diffuso atteggiamento di servilismo e sottomissione nei confronti di tutte le opere che abbiano superato un certo sbarramento. In altre parole: non si può parlar male di quella roba lì perché, ehi, l’hanno pubblicata. E poi il tipo o la tipa se ’ncazza, hai visto mai. LOL!
Io sono coraggiosa (o incosciente, fate voi) e simili atteggiamenti non mi appartengono. Però, mi ritengo anche di buon cuore, perciò vorrei che fosse chiaro il mio appello a Veltroni: spero che non smetta di scrivere gialli, soprattutto se tale forma di scrittura, di là dagli scherzi, è per lui un piacere, o addirittura un bisogno profondo. E poi, tutti noi (dico, entrambi noi due), gli affezionati lettori di Buonvino, meritiamo una degna conclusione per questa saga epica. Perché, sì!, anche per me, in un certo senso, le vicende di Villa Borghese sono invariabilmente una spassosissima buona lettura!